Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Centoventuno

L. dice che il tempo ci scandisce ma non definisce. Che noi non siamo il tempo, anzi lo abbiamo pressapoco inventato. Questo suo pensiero mi è rimasto addosso lungamente, nello scorrere di giorni troppo uguali in cui mi sentivo avvizzire, somma di due anni così duri da ritenere impossibile che il tempo non mi definisse. Mi stava definendo quello che passavo a soffrire, a questionarmi, a sperare l’impossibile, a non essere creduta, ad anelare sprazzi di felicità ormai incapaci di controbilanciare il resto. Se non era il tempo a definirmi, a erodermi, a farmi invecchiare come terra priva d’acqua, allora cos’era? Forse la delusione e il senso di fallimento, ma soprattutto l’inanità del dolore. “Il dolore è sempre inutile”, lessi una volta in un libro di Michela Marzano. Oggi, nella sua illuminante banalità, lo considero un mio motto.

Quattro mesi fa la mia giornata cominciava diversamente, e con essa la mia vita. Se nel nostro ideale certi cambiamenti sono tagli netti, nella realtà è anche vero il contrario: i loro contorni sono sfocati, perché l’evento può avere sì un inizio preciso, ma il modo in cui lo viviamo dispone di un tempo tutto suo. Un tempo-non-tempo, proprio come dice L., che scegliamo se attraversare senza fretta oppure provare a scavalcare a occhi chiusi per non fermarci a pensare. In entrambi i casi, in fondo, lo comandiamo: è un tempo che – no – non ci definisce, siamo noi a tracciarlo in una maniera che dice molto di chi siamo. Credo si chiami assunzione di responsabilità.

Di me dice che non sono una da scorciatoie, che non cerco di eliminare i vuoti. Al contrario, mi siedo sul loro fondo senza fare sconti, accettando la malinconia, le incertezze, persino le sfortune. E con loro, la vita tutta. Quella vita che drizzando così tanto le antenne si impara a valorizzare, dando finalmente più rilievo al presente che al passato o al futuro. Io, una che non lascia niente al caso e ha sempre programmato ogni cosa, talvolta non so nemmeno che farò domani. E se lo so, non è detto che lo faccia. Al tempo stesso, però, so bene in cosa sarò affaccendata in ogni mio adesso: starò dando acqua alla mia terra, curando le radici, riconoscendo la fortunata bellezza che mi circonda. Così come per l’assunzione di responsabilità di cui sopra, questo credo si chiami il passaggio tra il desiderare passivamente di essere felice e il provare a riuscirci. Si potrebbe dire che soffrendo sto diventando una persona migliore, ma il nesso non è affatto causale, solo puramente circostanziale: il dolore, infatti, è sempre inutile.

Invece Ornella vuole vivere e cantare

Il vero problema non è la tristezza. È abituarsi alla tristezza, quasi affezionarsi. Con la felicità non succede mai, si ha solo timore che finisca da un momento all’altro.

È mettersi così tanto le mani sugli occhi da non distinguere più i contorni, quelli tra ragionevole e nocivo, tra tempo investito e buttato. E rifarlo ancora, in preda a un incessante slancio di forza – ormai del tutto esaurita – ché là dove non arriva la speranza può comunque spingersi il lesionismo, e viceversa.

Convivere con il dolore per le ragioni sbagliate. Non per un lutto insanabile che ti accompagnerà a vita – e che peraltro conosco, oh se lo conosco – ma per, appunto, abitudine. Pur sapendo, ma non volendo dire. Pur piangendo, ma non riuscendo a fare. Sospendere il giudizio, senza però uscirne migliori. “Metti che mi sbaglio”, le parole che non voglio più pensare.