Jenga

Giocare a Jenga significa ponderare di quali mattoncini la torre possa fare a meno senza crollare. È un esercizio che impariamo anche nella vita affettiva, una pratica al limite del sadismo. Me ne sono stati tolti tanti, di pezzetti, negli ultimi anni: prima gli orpelli, poi l’ascolto, infine la tenerezza — l’empatia che si fa tocco.

Realizzare di essersi accostumati alle privazioni – pur di restare torre in piedi – non è mai immediato. L’abitudine alla rinuncia è un processo di sopravvivenza inconscio e consumante: più lo protrai, più ti mancano gli strumenti per tornare indietro. È un po’ come inselvatichirsi, disimparare a leggere: là dove prima c’erano lettere a formare parole pregne di senso, ora fluttuano segni dall’interpretazione incerta.

Così, il tempo della guarigione diventa quello della rialfabetizzazione, di un reincontro con gesti vitali perduti. In uno di questi, il più necessario, mi sono imbattuta un lunedì sera d’estate, mentre una stanca stazione centrale si riprendeva gli spazi calpestati di giorno da migliaia di turisti. C’erano anche i miei piedi, quel pomeriggio e dopo il crepuscolo. Piedi a reggere un corpo esile, a tratti nervoso, che mantiene sempre una certa distanza di sicurezza dagli altri. “Non avvicinarti” lo sento sussurrare, ché le ultime volte che è stato toccato, stretto, financo esaminato, ha dovuto fare i conti con l’angoscia, l’inganno, l’abbandono. Un corpo diffidente, eroso, che fatica a riconoscerle, quelle lettere.

Sono al binario 13, o forse 15, sto salutando una persona che so che non rivedrò mai più, e che per questo la mia ‘freddezza difensiva’ preferisce tenere impercettibilmente lontana. In fondo per congedarsi basta dirsi “ciao” e, se proprio vogliamo strafare, “buon rientro”, “avvisa quando sei a casa”, cose così. Frasi semplici, nette, sicure, che indirizzeresti anche a un semisconosciuto. Ciò che succede, però, è che a queste parole si somma un abbraccio, troppo inaspettato perché io mi opponga. Non so se mi venga dato per educazione, automatismo, impaccio, o ancora per compassione, ma so che in un istante riavvolge il nastro. Quando è stata l’ultima volta che ho abbassato la guardia? Che qualcuno ha fermato il mio moto perpetuo? La bobina vortica all’indietro, ma non riesce a riesumare un solo momento nel passato prossimo.

In quei pochi secondi una voragine si spalanca nella parte ferita di me: è un tepore confortante, dimenticato, resomi inaccessibile dalla disabitudine. Mi sento grata, cullata, ma al tempo stesso sola: per questa fragilità esplosa come un vaso di Pandora, e perché non posso cristallizzare i minuti su questa banchina affinché qualcuno – almeno una volta – abbia cura di me per farmi distinguere di nuovo tutte le lettere del mondo.

Mi ritrovo sopraffatta da un bisogno primordiale di tenerezza, dall’innocente anelito di abbandonare il viso su quella spalla destra e restare immobile, fino a quando le gambe formicoleranno, fino a che il mattoncino di legno – anziché rimosso – tornerà al suo posto, tra le mie fondamenta. Ma non c’è tempo per nulla se non un’ultima frase di circostanza. Il treno partirà in orario e io non rivelerò, né in quel momento né dopo, il più puro desiderio di questa donna che deve farcela sempre da sola — ma che da sola non può realizzare.
Come tatuaggi, addosso mi resteranno lo sconquasso di una stretta fugace e la commovente, irrazionale speranza che ritorni a cingermi. L’empatia che si fa tocco.