Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

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Vita di strada

Le automobili sono senza pudore, lo penso sempre.
Vetri trasparenti che ti sbattono sotto gli occhi di perfetti estranei. Microcosmi e microcase su quattro ruote, offerti a chiunque calpesti quell’asfalto.
Bisognerebbe chiedere il permesso prima di guardare dentro a un abitacolo, munirsi di un certo timore reverenziale, avere paura di disturbare, perlomeno nell’osservare l’infelicità degli altri.

Le coppie che senza rivolgersi la parola guardano avanti, nel vuoto del non-luogo che è la strada: lui mentre guida alza il volume dell’autoradio senza chiederle nulla, lei si gira verso il finestrino con gli occhi colmi di mal sopportazione e sconfitta. Ti basta un secondo, un sorpasso in autostrada, un semaforo giallo, per sentire tutta l’indifferenza che attanaglia i loro cuori, quella tristezza dello stare insieme senza davvero più stare insieme. Come quando lui sbaglia strada e lei non ha più la pazienza di riderci su, ma anzi lo redarguisce manco fosse un bambino all’ennesimo brutto voto. Come quando lei inchioda bruscamente a un rosso e lui – anziché canzonarla perché non è molto brava a guidare – le dice di accostare con tono saccente e la sostituisce al volante, umiliandola.

Penso che le auto siano senza pudore perché ci fanno affacciare brutalmente su ciò che speriamo sempre di non diventare, o che non abbiamo il coraggio di ammettere di essere: le coppie tristi che all’improvviso hanno smesso di provarci. Che se ripensano al loro primo incontro, alla magia dei risvegli insieme, a quando erano pronti a farsi consumare dall’emozione, sentono più amarezza che batticuore.

“Scrivi”

Scrivi Alice, scrivi. Non smettere, anzi, fallo ora che il tutto sembra indifferente e inutile. Perché non riempie il vuoto, non dà forme ai contorni spezzati. E non è nemmeno uno sfogo; se lo è, ti bastava poco. Fallo perché è più come vomitare dopo una sbronza violenta, dopo esserti riempita fino al collo. Dopo aver gettato sulle ferite alcol e sigarette. Ti sei divertita, certo, a tratti – forse – hai pensato persino di volare. Presentuosa avrai addirittura creduto di saper volare. Poi il fardello di quei galloni ti ha riportato giù, perché prima o poi si deve sempre tornare a  terra.

E allora ti ritrovi in ginocchio a fissare il muro: ti verrebbe da piangere ma anche quello, ormai, ha poco senso. Il primo conato è un avvertimento, al secondo ti lasci andare. Lo fai scrivendo su una pagina bianca, come il più classico dei cessi. Tiri giù tutto, fino all’epicentro dello stomaco, passando per cuore e parole. E quando pensi di aver finito, ne avrai ancora. Perché questo non guarisce e nemmeno allevia, ma almeno la testa girerà meno. Sarai, per un attimo, più lucida. E forse anche cinica.

Chiudi l’asse del foglio, ora, puoi andare a dormire.

G

Queste parole non arrivano da una persona qualsiasi. Per due motivi.

Prima di tutto perché si tratta di un (giovane) uomo così sensibile ed empatico verso l’universo femminile da smentire tutti quei maschi che considerano il dolore di una donna una malattia ammorbante da rinfacciarle con annoiata superiorità. E io li conosco bene. Li ho anche amati, amaramente più di me stessa.

Moreover, costui è l’autore di L’ha detto un italiano, ebook che testimonia e interpreta – in quel modo semplice e privo di sovrastrutture che sa arrivare al cuore – la grandezza dei nostri pensatori, della nostra cultura, del nostro idioma, ma anche della gente comune come me, fiera di essere nata in un Paese che qualche motivo per amarlo – in fondo – ce lo dà ancora.

Per questo e per la mail notturna, grazie Guido.