Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Mese: ottobre, 2015

Crash test

Io non so quali ricordi rimangano indelebili col sopraggiungere della vecchiaia, quali saranno – se mai vivrò così a lungo – gli istanti che ancora sentirò strisciare sottopelle, come ambrosia calda e vellutata. Per il momento mi accontento di sapere per quali attimi credo valga la pena vivere, seppure con tutti gli effetti collaterali del caso.
La corsa è uno di loro: quella del cuore, non delle gambe; quella che inizia nel buio di una notte e non alle prime luci dell’alba. La corsa all’impazzata contro la razionalità, contro i te l’avevo detto e i tanto lo sapevo che sarebbe andata a finire così, contro la paura di morirne. Lo sappiamo quasi sempre, come andrà a finire, specie quando ci gettiamo in queste corse folli con lo stesso impeto con cui imbracceremmo un’arma per difendere chi più amiamo. Lo sappiamo, che là in fondo c’è un muro spesso come una quercia, di quelli che distruggono le auto di ultima generazione e le speranze cui ci aggrappiamo per dare un senso ai nostri giorni.

Correre finché senti così tanto amore che fa quasi male – annullando il confine tra Bene e Dolore – ché le emozioni irruente sono troppo poche per scegliere di rinunciarvi, persino quando ci fanno sanguinare. Correre come se fosse la sola cosa giusta da fare, il motore di ogni errore e ogni antidoto, la soluzione ultima alla paura più grande: perdere la persona per cui hai scardinato tutto il tuo universo.
Ho corso come una pazza, con e senza lui, sulla strada di un amore mai sopito nonostante tutto ciò che gli avevamo fatto. Ho lasciato che il mio cuore rischiasse la pelle come quelle bestie cui scoppia a furia di galoppare: ricordo il terrore – ostinato – di riprendere per l’ennesima volta una gara destinata a non avere vincitori, un disegno troppo grande per due esseri umani miseramente incapaci di farsi del bene. Ricordo tutto, in verità, come se quella sera fosse ieri: l’incontro in piazza, con l’aria uggiosa novembrina e gli occhi velati da dubbi e batticuore. Un bacio inevitabile e appassionato in piedi, per strada, reggendo un bicchiere di spumante mentre la mano cerca di non tremare. Una cena veloce, dove due volti tanto estranei quanto familiari si specchiano l’uno nell’altro: raccontarsi come va, cosa siamo diventati, cosa è successo alle persone intorno a noi, mentre gli occhi si perdono in sguardi senza confini, galleggiando nella voglia di piangere e ridere insieme. Poi il cinema, le mani giunte per tre ore, quel silenzio surreale che fa sembrare tutto possibile, che chiude il mondo fuori dalla sala lasciandoti il diritto di sognare a occhi aperti. E infine l’amore, che dalle lenzuola raggiunge il cuore, quello che come ho fatto a fare a meno del tuo corpo su di me anche solo per un’ora.

Corri cuore mio, corri all’impazzata in questa notte che riapre ogni ferita e soffia sul fuoco che ti ha bruciato l’anima, corri più forte della paura di chiedersi cosa diavolo stiamo facendo, corri verso quel muro che ti riporterà alla realtà, ma non prima di aver sfiorato di nuovo la gioia. Sentirai la vita pulsare nella disperazione di questa galoppata fino all’attimo prima dello schianto, avrai voglia di sperare, di pregare, di illuderti che vada a finire diversamente: non succederà, e lo sai bene. Ma tu corri lo stesso, anche solo per dare un senso a questa paura. Per svegliarti tra quarant’anni e pensare che hai conosciuto la follia, e l’hai assaporata fino all’ultima goccia.

Ansia

Sembra essere lo stato d’animo più in voga al momento, la versione cool della paura. Tutti hanno ansia di qualcosa, ma soprattutto sembra che tutti ci mettano ansia. E non quella da prestazione che ormai suona quasi vintage – finalmente abbiamo capito che i cazzi mosci non sono poi così sporadici – bensì quella da irriconoscenza. Una tizia con cui sei uscito ti scrive il giorno dopo? Che ansia. Il tipo che ti sei limonata ti chiede quando può rivederti? Che ansia. La ragazza che ti scopi una volta a settimana e a cui fai promesse azzarda la richiesta di vedervi un filino più frequentemente? Che ansia. Il tuo ex ti scrive che ti pensa ancora? Che ansia.

Ora, è ovvio che al mondo esistano persone invadenti che magari non sanno riconoscere i segnali che gli inviamo – tipo “piuttosto che darla a te mi infibulo” – e che insistono inutilmente portandoci alla maleducazione, ma forse in quel caso dovremmo parlare di noia, pesantezza, persino pena. Di certo non ansia. Ho l’impressione che tra molti single della mia età si sia fatta strada la moda di dover sminuire tutto ciò che ha una parvenza o un potenziale di serietà: esci con uno, ti trovi bene, sussulti ogni volta che ti scrive, eppure devi buttarla in caciara, sentirti quasi sciocca a valutare fin da subito l’esclusività, ridurre il tutto ai minimi termini. Devo vederlo e mi viene l’ansia.

Io mi sono rotta il cazzo di gareggiare a chi mette le mani avanti per primo, di svilire la serietà, di fingere di non cercare di più di una frequentazione. Se conosco una persona, e questa persona mi piace, non ho l’ansia di uscirci né l’ansia di darle una chance, di lanciarmi. Ho l’ansia che vada a finire male, e che magari accada per colpa mia. Non temo le cose belle, ho paura di perderle.
Tutto ciò che di meglio conosco al mondo deriva dalla serietà, da un impegno: fare figli, brillare sul lavoro, mettere da parte i soldi per realizzare un sogno, scapicollarsi da una parte all’altra della città per soccorrere un amico. Quand’è che essere seri e pretendere serietà è diventato così sbagliato? In che momento abbiamo iniziato ad avere talmente paura di non piacere da non essere nemmeno in grado di ammetterlo, preferendo raggirare il problema con l’atteggiamento esasperato di chi si dichiara vittima dell’ansia?
Sarà la fretta di consumarsi, sarà l’incapacità di fermarsi, sarà che socialmente pare inaccettabile volere di più da una persona, specie se la si conosce da poco… fatto sta che mi sembra di vivere in mezzo a una costellazione di fuochi di paglia, di relazioni satellite che durano giusto il tempo di una cometa, il tanto necessario a non sentirsi né soli né brutti, per poi tornare sulla propria strada come niente fosse. Fuochi di paglia contro la solitudine, dove un mero palliativo conta più dell’antidoto: ecco come vedo molti della mia generazione vivere – anzi non vivere – i rapporti. Poco tempo fa ho confidato a uno con cui sono andata a letto che per l’età che ho e per i progetti – seppur lontani per ora – a cui ambisco, quando conosco un uomo comincio fin da subito – in una minuscola parte di me, per carità – a valutarlo come padre. Non perché io debba figliarci né perché mi stia innamorando: semplicemente so cosa voglio (anzi cosa vorrò), così come so che significa sprecare anni accanto a una persona sbagliata con cui nella migliore delle ipotesi cresceresti bambini disturbati e pieni di lacune affettive. Avrei dovuto trattenermi dal confidare questa mia tendenza a un quarantenne? Probabile. Gli è venuta l’ansia nel sentirmela spiegare? Certo che sì.

Forse il problema di fondo è che rifuggiamo la verità, sia essa che cerchiamo qualcuno con cui condividere la vita o al contrario qualcuno da usare a nostro piacimento. In entrambi i casi sarebbe tutto così semplice, e umano, e terribilmente perdonabile, se solo non si perdesse tempo a fingere il contrario. A fingerci distaccati e annoiati nel primo caso, oppure coinvolti ed entusiasti nel secondo. Come se chi abbiamo davanti non contasse mai abbastanza. Io l’ansia ce l’ho, eccome se ce l’ho, ma non la imputo a terzi. Ho l’ansia di commettere altre scelte sbagliate, di sentirmi costretta a usare inutili strategie per paura che la vera me spaventi chi ho davanti; ho l’ansia – lancinante – dell’abbandono, perché lo vivo come un’insostenibile colpa; ho l’ansia di dormire male la notte perché mi manca qualcosa che non riesco – o non voglio – mettere a fuoco.
La sola persona che mi mette ansia sono io. E che il cielo benedica i pochissimi che ci provano, con interesse genuino e buone intenzioni, a mettermene.