Nove

Non ho avuto un momento di crisi vero e proprio. Non ho nemmeno pianto a dirotto.
Ho solo speso molti giorni con un velo di tristezza addosso, a volte impalpabile, a volte coprente. Tutto qui.
Il dolore è la cosa più personale che esista, non ha misurazioni né tempi o rimedi prestabiliti. Benché io detesti le vittimizzazioni c’è un atteggiamento che disprezzo nettamente di più: chi sminuisce l’afflizione degli altri. La sofferenza è necessaria e giusta, e anzi mi preoccupa chi non ne prova. Me, ad esempio: talvolta cuore e mente perdono ogni contatto, creando un cortocircuito che ha tutta l’aria di un vuoto emozionale. Un salto interrotto, un respiro trattenuto, il freddo che fingi di non sentire quando sei giovane e tua mamma ti dice che sei vestita troppo poco. Negazione, sopravvivenza, accettazione.

Sono abituata a pensare troppo, da sempre. Soprattutto agli scenari peggiori. Le disavventure sanno gambizzarmi, ma quasi mai sorprendermi.
A volte lo sento chiaramente, che una cosa non finirà bene, e sfrutto ogni giorno utile per prepararmi alla resistenza. Resistenza alla rabbia, in primis. Più ancora che al dolore. E soprattutto resistenza all’ombra lunga della depressione, da cui solo la consapevolezza di essere un soggetto a rischio mi salva. Costruisco il mio sole, le mie mura, le mie armi, aspetto che il peggio arrivi e che, in qualche modo, passi. Ma non senza feriti, ovviamente. Non senza che mi ferisca anch’io, almeno un po’. Parte del dolore riesce a permeare le mie difese, depositandosi silente nel retro dei pensieri. Nessun pianto a dirotto, dunque. Ma un velo di tristezza, quello sì.

Mentre aprivamo la porticina minuscola al civico 8 pensavo a come proteggerlo se qualcosa fosse andato storto. Mi chiedevo se, con le mie parole dei mesi precedenti, lo avessi preparato abbastanza agli scherzi della vita. Se si ricordasse fino in fondo che ci sono episodi totalmente fuori dal nostro controllo, molto più frequenti di quanto si creda.
Ricordo tutto: l’attesa troppo lunga, il piumino tolto per il caldo e tenuto goffamente sulle gambe, la fattura che spunta dalla borsa bordeaux regalata da mio fratello, una ragazza in coda che chiede di mettere in carica il cellulare e lo usa parlando a voce troppo alta, le nostre facce tese perché per strada avevamo litigato. E poi quella piccola stanza, pulita e accogliente, discreta nella sua poca illuminazione. I due sgabelli, troppo minuti, dove appoggiare le nostre cose. La porta del bagno dischiusa di fronte alla mia seduta. E infine il lungo, sospeso silenzio: più si protraeva, più confermava i miei presentimenti.

Il nostro viaggio è finito con quattro parole, rese carezze dalla dolcezza con cui venivano pronunciate. “Non vedo il battito”, ha detto lei. “Va bene”, ho risposto io, che già sapevo. Che avevo sempre saputo. Mentre sorridevo, sentivo due lacrime raggiungere le tempie: impossibile resistere all’umanità e delicatezza di quella donna – mai incontrata prima – e al cuore puro e sconfinato dell’uomo che amo, al candore della sua reazione, alla tenerezza con cui riusciva a stemperare il dolore.

Non sentivo nemmeno il freddo dicembrino, una volta fuori. Non sentivo proprio niente, se non una grande urgenza: andare avanti. Salvarmi, salvarci. Recarmi in redazione e restarci fino a tardi, svegliarmi presto l’indomani e chiudere la settimana lavorativa. Fare tutto ciò che avevo in programma, senza esclusioni.
Ironia della sorte, tra le cose da fare quel pomeriggio c’era la visita in ospedale a due amici freschi di parto. “Noi ora ci andiamo, perché la vita va avanti”, ho detto. Ed eccoci lì, coi nostri migliori – stentati – sorrisi, a guardare da vicino proprio la Vita, quella che continua, che arriva e scombussola tutto, che non è mai indolore, che a volte se ne va anzitempo – anche se fino a una settimana prima c’era.
Eccomi lì, ad attuare la mia resistenza, a non permettere al dolore di oscurare la bellezza del mondo.

Il resto sono flash tra giorni di alti e bassi: la sala operatoria gelida, un pranzo di lavoro dove la donna accanto a me rifiuta vino e ordina solo cibi cotti, una festa a cui incontro una compagna di liceo che ha la scadenza identica alla mia – per un attimo, osservandola, penso di vedere me stessa. Avrei la pancia così, ora.
E poi le visite mediche serrate e sfinenti, le sale d’attesa tra sorrisi e occhi cupi, la vigilia di Natale rovinata dai dolori postoperatori, una foto del pranzo del 25 in cui invece sorrido allegra e scherzosa – ché amo troppo le Feste per permettere a qualcosa di rovinarmele.
E ancora i giorni di sole con cui riempirmi gli occhi, l’amore delicato e mai invadente della mia migliore amica, le banalizzazioni di chi parla senza sapere o snocciola dati statistici non richiesti – come se non li conoscessi già. Le ore notturne trascorse a sperare – quasi pregare – che esista una qualche giustizia, che quanto accaduto a noi fosse servito a risparmiarlo a chi ci provava da tanto. Due coppie vicine a noi, per l’esattezza. Proteggi i loro bambini, ovunque tu sia.
Poi il malumore, il riposo rannicchiata sul divano, i diversivi, i nuovi progetti, il tempo che diluisce tutto, l’ennesima riprova che il ruolo della donna è talvolta di una difficoltà estrema.

Infine, sopra ogni cosa, il nostro matrimonio.
Il trionfo dell’amore su qualsiasi disavventura. La conferma che tutto trova il suo posto, la sua cura. Io la sua, lui la mia. Che la felicità esiste, e noi la meritiamo tutta.