Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Mese: dicembre, 2014

Il dolore che (non) unisce

Stavo pensando a quanto sia strana la morte. Non solo ti porta via qualcuno, allontanandolo per sempre, ma spesso spinge via da te anche chi c’è ancora. Ci si perde e basta. Senza colpe, o forse sì.

I legami che si snodano intorno a un lutto sono strani. Morbosi da una parte, labili dall’altra. Si cammina su un filo millimetrico che separa la condivisione di un grande dolore dalla presunzione inconsapevole di essere quelli che soffrono di più. Si ha la fretta di cercare tracce di qualcuno scomparso in chi l’aveva conosciuto – tentando quasi di replicarne il rapporto – ma al tempo stesso si desidera tenere solo per sé quel legame unico perduto, proteggerlo, custodirlo.

Vorresti raccontare a tutti le risate, le confidenze, i messaggi più profondi che vi scambiavate e che ora solo i tuoi occhi possono leggere. Vorresti dirlo al mondo, ma quel mondo che deve sapere – che deve ricordare e commemorare – è lo stesso che non sta soffrendo quanto te, che non può capire, che se osa andare avanti troppo presto con la sua vita allora manca di rispetto.
Quanto fa male la vita degli altri quando chi amiamo non ne ha più una.

Stavo pensando a due amiche con cui è andata a finire così, dopo che la morte ci aveva “unite”: abbiamo smesso di parlarci, senza un reale motivo. E a come spesso, per ipocrisia, per buonismo, per inconsapevolezza, non si abbia la franchezza di ammettere che le perdite ci rendono sì fragili, sensibili e bisognosi di calore, ma talvolta anche egoisti, monotematici, miopi. E questo non nuoce a quei rapporti che la morte interrompe per sempre lasciandoci orfani di persone per le quali ci saremmo persino sacrificati. Fa male a quelle amicizie che ancora hanno un futuro, che potrebbero aiutarci a non sentirci soli domani, e dopodomani, e tutte le volte in cui ci sveglieremo sognando che quegli occhi, quella voce, quell’ironia, quel sorriso ci siano ancora.
Io e loro ci siamo perse e basta. Nelle tante parole seguite da pochi fatti, nell’incapacità di chiedere aiuto o nella prepotenza di pretenderne troppo, nella fallibilità del nostro essere umane.
Perse da vive, come solo il lutto sa fare.

Shelter

C’era questa finestra, e fuori un balcone.
Oltre il balcone, Roma. Trafficata, caotica, rassicurante.
C’era un corridoio lungo, di quelli che a Milano non si vedono più, forse solo in casa dei nonni se hai la fortuna di averne ancora. Non è più tempo di salotti chiusi e tavoli da pranzo, oggi è tutto un angolo-cottura-parete-cucina-zona-living-open. Stranierismi che parlano di compromessi, sacrifici, crisi. Ma pur sempre con un certo fascino anglosassone, per carità.

C’era una finestra, e un cuore confuso –  il mio – che aveva percorso centinaia di chilometri su un Frecciarossa, chissà poi perché. Per scappare forse, da cosa non lo so. A volte più che fuga è solo voglia di sovrapporsi a un altro sfondo, restare immobile e vedere se qualcuno si accorge di te. Non è facile chiedere aiuto, per la mia voce non lo è mai stato. Come una bambina resto ferma, incrocio le dita e spero che qualcuno si accorga dei miei occhi stanchi, della ruga sempre più calcata che li separa, delle pause un po’ troppo lunghe tra una frase e l’altra. Di come mi rannicchio sul letto, di fianco, facendomi scudo con la coperta.
Essere tratta in salvo, che bello sarebbe. Senza domandarlo, senza nemmeno rendersene conto. Salvata dall’empatia, dalla delicatezza, da due orecchie bramose di ascoltare, di capire.

C’era dunque questa finestra e io guardavo oltre il vetro, in piedi, senza fiatare, per non lasciare che quel momento mi scivolasse via dai polmoni. Il momento in cui – all’improvviso – non sentivo più dolore. Tra quelle pareti così vicine al cielo, in un luogo senza né armi né brutte parole dove ero finita per caso. O forse per speranza. Qui potrei stare bene, ho pensato. Qui arriverei qualche venerdì sera con la valigia in una mano e il sorriso nell’altra, e mi sentirei al sicuro.

Ci sono tornata solo una volta, laggiù, poco è bastato per capire che i chilometri remano contro i tumulti. Che una persona consapevole di ciò di cui hai bisogno non è necessariamente in grado di dartelo. Che per superare gli ostacoli – anziché aggirarli – non basta riempirsi gli occhi delle luci di Roma. Eppure qualcosa di quella stanza si è depositato nel cuore, a cullare la pace che vi coltivo dentro: la certezza che ci si possa fidare delle persone, non chiunque ma di parecchie sì. Lo stupore di sentirsi compresa, accolta, accettata nonostante i miei difetti; di scoprire che non tutti vogliono cambiarti o trasformare le tue debolezze in una colpa ignorando le tue cicatrici. La serenità di capire che osservare il mondo da quella finestra – ammirando il buio farsi alba e le luci delle auto colorare la notte – altro non era che imparare a guardare avanti. Avere fame di futuro. E sentire il cuore tornare a battere.