Senza colpe

Io me lo ricordo com’era essere gelosa. Una prigione, un’angoscia costante, un perpetuo Ma che mi sto facendo? E ancora, Ma che mi sta facendo?
Ricordo notti sola senza riuscire ad addormentarmi, mani ghiacciate persino sotto al sole, la tachicardia che al mattino apriva gli occhi – mi apriva il petto – prima di me. Svegliarsi di soprassalto di notte e guardarlo dormire, nel disperato terrore – o consapevolezza – che non fosse mio. Lui, che per primo aveva avvelenato la nostra relazione di dubbi e ossessioni, lui che vedeva il male ovunque fino a rendersi cieco dinanzi al mio amore, ché non fidarsi è sempre la scelta più semplice ma così agendo, involontariamente e quasi per osmosi, s’insegna all’altro a fare altrettanto.
Zoppicavamo insieme io e lui, nel desolante scenario di una guerra senza meta. Tra le macerie, le poche cose buone che ancora tenevano in piedi la nostra storia: le abbiamo abbattute tutte, una a una – complici di distruzione – fino a quando possedersi o odiarsi era un po’ la stessa cosa. Fino a che il rispetto non lo negavamo solo l’uno all’altra, ma persino a noi stessi.

Mi è successo solo una volta di fare quella fine, piccola femmina insicura che annaspava nella paranoia e al tempo stesso sperava di sbagliarsi. Ma una donna non si sbaglia mai, e infatti nessuno dei miei dubbi – delle certezze che avevo troppa paura di ripetere ad alta voce – si è rivelato infondato. Eppure non me ne sono andata.
Eccolo lì, il paradosso della gelosia: più sai di vederci giusto, più non accetti di perdere una persona che, in fondo, è già lontana. Nel momento in cui dovresti solo sciacquarti il viso e riconoscere le rughe che quel veleno ha portato sulla tua pelle di porcellana, nel momento in cui ogni organo del tuo corpo chiede di porre fine a quello strazio, anziché mollare la presa ti ci aggrappi. Coi denti, con le unghie, col terrore di chi sa di aver sbagliato tutto. Di aver puntato tempo, lacrime e sorrisi sul cavallo dopato, non su quello veloce per davvero.

È una vita nuova, dopo certe relazioni. Il tempo scorre senza più sembrare un costante countdown che precede una catastrofe, la mente si scopre libera di pensare a tante cose nuove, a sogni, frivolezze, ambizioni che la coltre di paranoia aveva sepolto vive. All’improvviso nessuno può più condizionare la tua giornata, non ci sono altre case, altri occhi, altri telefoni, altri vestiti, e il rammarico per aver compiuto troppe inutili rinunce si mescola alla gioia di non doverne più fare. Alla (aspra) consapevolezza che sarebbe bastato fermarsi subito: alla prima avvisaglia, all’ingresso in scena di quella dilaniante possessività.

Con la lucidità del poi, ho imparato una lezione: indipendentemente da quanto sia motivata, dal vederci lungo, dall’istinto che non sbaglia mai, da eventuali ferite che si fanno scontare a terzi, in fondo la gelosia non è altro che un campanello d’allarme. Una scialuppa di salvataggio. Il modo semplice ed efficace con cui la dignità ti dice che quella storia non può funzionare, che navigare in mare aperto non è per tutti. Perché in realtà non riuscire a combaciare non è affatto una colpa, come non lo è abbandonare la nave, lasciarsi alle spalle, dimenticarsi.
Se sei geloso della tua donna, del suo passato, del modo in cui si veste o piace alla gente, evidentemente non sei pronto ad amare incondizionatamente, a volerla per ciò che è davvero, e questo priva la relazione di ogni ragione d’essere. Se sei gelosa perché sei certa che lui ti nasconda qualcosa, che si senta con altre, che ti dica bugie su cosa fa, che abbia incontri di nascosto, evidentemente non ti fidi o sai di non poterti fidare (non c’è poi tanta differenza), e nessun rapporto può reggersi su tali sabbie mobili. La conclusione da trarre e attuare quando si sente il respiro iniettato di gelosia è sempre e solo una: let’s call it a day. Ammettiamo la sconfitta, l’errore da dilettanti, il sogno senza appigli. Prima di finire troppo oltre.

E invece no. Ostiniamoci ad andare avanti, a scavare, a sospettare, a fingere che non sia odio, a farci del male piuttosto che mollare la presa. Consumiamo il fegato di dubbi, lo stomaco di acido bollente, gli occhi di lacrime nevrotiche, le labbra di morsi. Assicuriamoci che non resti più nulla di noi di cui sorridere, che il sesso perda ogni connotazione romantica, che qualsiasi pretesto – persino il tono frainteso di un sms – porti a una lite inutile pronta ad alimentare il fuoco del veleno. Torniamo a casa la sera senza reale voglia di vederci o parlarci, mentiamo guardandoci negli occhi quasi per sfida, commettiamo errori raccontando a noi stessi che è l’altro ad averci portato fin lì. Impegniamoci – come mai abbiamo fatto quando la posta in gioco era la gioia – a dimostrare ciò che siamo stati incapaci di riconoscere: che non siamo fatti, né pronti, per stare insieme. E che la sola cosa che ci riesce davvero bene, insieme, è essere immaturi. Nascosti dietro alla parola amore come i bambini che – coprendosi gli occhi – credono di diventare invisibili.
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