Rush hour

di Alice Ayres

Fretta. Di capire, di godere, di consumarsi di passione. Di scoprire come finirà, come ti ferirà, come non avrà avuto senso nemmeno iniziare. Fretta di conoscersi, annusarsi, inebriarsi di pelle e occhi e lingua, fino a quando l’odore e il sapore prima sconosciuti diventano all’improvviso familiari, necessari, inconfondibili. Fretta di avere paura, ché senza paura ci si lascia troppo andare, si viene feriti e abbandonati – e allora tutta questa fretta forse andava usata per darsi il massimo nel più breve tempo possibile, prima dell’inevitabile capolinea. Fretta del futuro solo per vedere se ci saremo ancora, se le mie dita continueranno a carezzare il suo orecchio mentre lo guardo appisolarsi. Fretta dell’ “a domani” che da speranza si fa promessa, poi delizia, infine certezza. Fino a quando proferirlo non serve, ché le parole nulla possono contro la chiarezza dei gesti: fretta di fatti, ecco sì, di concretezza, di un libro che non si giudica dalla copertina ma dalla trama, di un film che fa ridere entrambi, abbracciati sul divano – e se ogni tanto commenti una scena ad alta voce non muore nessuno, ché tempo di tacere mica ce n’è. Fretta di chiacchiere, confronti, scambi, dibattiti, ma ancor più di silenzi, quando al risveglio l’orologio reclama attenzione ma tu hai occhi solo per quel volto, e sorridi naso contro naso come gli eschimesi, senza proferire verbo.

Fretta di non sbagliare più, e quindi sbagliare in modi nuovi – credendoci – ché la sola fretta sbagliata, in fondo, è l’arrendersi a un cinismo senza ritorno.