Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Tag: disillusione

Ansia

Sembra essere lo stato d’animo più in voga al momento, la versione cool della paura. Tutti hanno ansia di qualcosa, ma soprattutto sembra che tutti ci mettano ansia. E non quella da prestazione che ormai suona quasi vintage – finalmente abbiamo capito che i cazzi mosci non sono poi così sporadici – bensì quella da irriconoscenza. Una tizia con cui sei uscito ti scrive il giorno dopo? Che ansia. Il tipo che ti sei limonata ti chiede quando può rivederti? Che ansia. La ragazza che ti scopi una volta a settimana e a cui fai promesse azzarda la richiesta di vedervi un filino più frequentemente? Che ansia. Il tuo ex ti scrive che ti pensa ancora? Che ansia.

Ora, è ovvio che al mondo esistano persone invadenti che magari non sanno riconoscere i segnali che gli inviamo – tipo “piuttosto che darla a te mi infibulo” – e che insistono inutilmente portandoci alla maleducazione, ma forse in quel caso dovremmo parlare di noia, pesantezza, persino pena. Di certo non ansia. Ho l’impressione che tra molti single della mia età si sia fatta strada la moda di dover sminuire tutto ciò che ha una parvenza o un potenziale di serietà: esci con uno, ti trovi bene, sussulti ogni volta che ti scrive, eppure devi buttarla in caciara, sentirti quasi sciocca a valutare fin da subito l’esclusività, ridurre il tutto ai minimi termini. Devo vederlo e mi viene l’ansia.

Io mi sono rotta il cazzo di gareggiare a chi mette le mani avanti per primo, di svilire la serietà, di fingere di non cercare di più di una frequentazione. Se conosco una persona, e questa persona mi piace, non ho l’ansia di uscirci né l’ansia di darle una chance, di lanciarmi. Ho l’ansia che vada a finire male, e che magari accada per colpa mia. Non temo le cose belle, ho paura di perderle.
Tutto ciò che di meglio conosco al mondo deriva dalla serietà, da un impegno: fare figli, brillare sul lavoro, mettere da parte i soldi per realizzare un sogno, scapicollarsi da una parte all’altra della città per soccorrere un amico. Quand’è che essere seri e pretendere serietà è diventato così sbagliato? In che momento abbiamo iniziato ad avere talmente paura di non piacere da non essere nemmeno in grado di ammetterlo, preferendo raggirare il problema con l’atteggiamento esasperato di chi si dichiara vittima dell’ansia?
Sarà la fretta di consumarsi, sarà l’incapacità di fermarsi, sarà che socialmente pare inaccettabile volere di più da una persona, specie se la si conosce da poco… fatto sta che mi sembra di vivere in mezzo a una costellazione di fuochi di paglia, di relazioni satellite che durano giusto il tempo di una cometa, il tanto necessario a non sentirsi né soli né brutti, per poi tornare sulla propria strada come niente fosse. Fuochi di paglia contro la solitudine, dove un mero palliativo conta più dell’antidoto: ecco come vedo molti della mia generazione vivere – anzi non vivere – i rapporti. Poco tempo fa ho confidato a uno con cui sono andata a letto che per l’età che ho e per i progetti – seppur lontani per ora – a cui ambisco, quando conosco un uomo comincio fin da subito – in una minuscola parte di me, per carità – a valutarlo come padre. Non perché io debba figliarci né perché mi stia innamorando: semplicemente so cosa voglio (anzi cosa vorrò), così come so che significa sprecare anni accanto a una persona sbagliata con cui nella migliore delle ipotesi cresceresti bambini disturbati e pieni di lacune affettive. Avrei dovuto trattenermi dal confidare questa mia tendenza a un quarantenne? Probabile. Gli è venuta l’ansia nel sentirmela spiegare? Certo che sì.

Forse il problema di fondo è che rifuggiamo la verità, sia essa che cerchiamo qualcuno con cui condividere la vita o al contrario qualcuno da usare a nostro piacimento. In entrambi i casi sarebbe tutto così semplice, e umano, e terribilmente perdonabile, se solo non si perdesse tempo a fingere il contrario. A fingerci distaccati e annoiati nel primo caso, oppure coinvolti ed entusiasti nel secondo. Come se chi abbiamo davanti non contasse mai abbastanza. Io l’ansia ce l’ho, eccome se ce l’ho, ma non la imputo a terzi. Ho l’ansia di commettere altre scelte sbagliate, di sentirmi costretta a usare inutili strategie per paura che la vera me spaventi chi ho davanti; ho l’ansia – lancinante – dell’abbandono, perché lo vivo come un’insostenibile colpa; ho l’ansia di dormire male la notte perché mi manca qualcosa che non riesco – o non voglio – mettere a fuoco.
La sola persona che mi mette ansia sono io. E che il cielo benedica i pochissimi che ci provano, con interesse genuino e buone intenzioni, a mettermene.

Rush hour

Fretta. Di capire, di godere, di consumarsi di passione. Di scoprire come finirà, come ti ferirà, come non avrà avuto senso nemmeno iniziare. Fretta di conoscersi, annusarsi, inebriarsi di pelle e occhi e lingua, fino a quando l’odore e il sapore prima sconosciuti diventano all’improvviso familiari, necessari, inconfondibili. Fretta di avere paura, ché senza paura ci si lascia troppo andare, si viene feriti e abbandonati – e allora tutta questa fretta forse andava usata per darsi il massimo nel più breve tempo possibile, prima dell’inevitabile capolinea. Fretta del futuro solo per vedere se ci saremo ancora, se le mie dita continueranno a carezzare il suo orecchio mentre lo guardo appisolarsi. Fretta dell’ “a domani” che da speranza si fa promessa, poi delizia, infine certezza. Fino a quando proferirlo non serve, ché le parole nulla possono contro la chiarezza dei gesti: fretta di fatti, ecco sì, di concretezza, di un libro che non si giudica dalla copertina ma dalla trama, di un film che fa ridere entrambi, abbracciati sul divano – e se ogni tanto commenti una scena ad alta voce non muore nessuno, ché tempo di tacere mica ce n’è. Fretta di chiacchiere, confronti, scambi, dibattiti, ma ancor più di silenzi, quando al risveglio l’orologio reclama attenzione ma tu hai occhi solo per quel volto, e sorridi naso contro naso come gli eschimesi, senza proferire verbo.

Fretta di non sbagliare più, e quindi sbagliare in modi nuovi – credendoci – ché la sola fretta sbagliata, in fondo, è l’arrendersi a un cinismo senza ritorno.