Con gli occhi giusti

di Alice Ayres

Ci ho messo tutto in quelle carezze. Tutto quello che era rimasto.
Ho scandito nella mente ogni pensiero, ogni preghiera, ogni sogno, sperando – attraverso le dita che scorrevano tra i suoi capelli neri e argento – di raggiungergli il cuore.
Non rovinare tutto in un modo così fottutamente stupido.
Non cedere alla paura, alla tentazione di farmi male.
Non lasciarmi uscire da quella porta senza un bacio, senza un piccolo sorriso.

L’intimità tra due persone non si costruisce, succede e basta. Per noi è stato così fin dal primo giorno, nella naturalezza della condivisione di qualsiasi momento, fino a quando erano più le volte che la porta del bagno restava aperta anziché chiusa. Mi piaceva sedere accanto alla vasca mentre lui faceva la doccia, osservarlo alle prese coi gesti quotidiani che conoscevo a memoria. Amavo come fosse metodico, iterativo, prevedibile in molte cose: la prevedibilità, in fondo, è brutta solo quando a ripetersi è il dolore. Altrimenti si fa rassicurante e profuma di certezze, di casa.
“Casa” per me era bere dallo stesso bicchiere a tavola, uscire a passeggiare insieme dopo pranzo nelle domeniche senza pioggia, appoggiare la sua fronte sulla mia pancia – in piedi davanti a lui – e carezzargli i capelli con tutte le dita e tutto l’amore che avevo.
Non ferirmi apposta.
Non essere ingiusto, arrogante e ingrato.
Non dimenticare tutto quello che ho fatto per te.
Quante richieste nelle carezze silenziose di quella mattina, le ultime della nostra vita. Quanto cuore gettato alla mercè dell’amarezza, spinto dall’irrazionale forza della speranza che sta per morire.

Mi sentivo come quando il treno si ferma all’improvviso in mezzo al nulla e non capisci se c’è un semaforo oppure si è guastato. Più speravo in un rosso momentaneo, più sapevo che ci eravamo guastati. Di nuovo. Per sempre. Che forse non ci eravamo mai aggiustati.
Non c’erano più biglietti ferroviari da acquistare né bagni in cui nascondersi al passaggio del capotreno: il fatidico giorno era arrivato. Quello in cui smettere di guardare l’uomo che amavo, e iniziare a vedere l’uomo che era.
Quello che mi ha fatto uscire senza bacio, né sorriso, né un ciao.
Che ha scelto di ferirmi, per giorni, con l’ennesimo dei suoi silenzi.
Che non mi ha mai messo prima di niente, tanto meno se stesso.
Che non ha mai saputo dire Mi dispiace.
Che pensava che tutto quel male, io, lo meritassi.
E che non aveva preventivato che quell’assenza con cui mi stava punendo si sarebbe trasformata – finalmente – nella mia più grande liberazione.