Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Tag: dolore

Crash test

Io non so quali ricordi rimangano indelebili col sopraggiungere della vecchiaia, quali saranno – se mai vivrò così a lungo – gli istanti che ancora sentirò strisciare sottopelle, come ambrosia calda e vellutata. Per il momento mi accontento di sapere per quali attimi credo valga la pena vivere, seppure con tutti gli effetti collaterali del caso.
La corsa è uno di loro: quella del cuore, non delle gambe; quella che inizia nel buio di una notte e non alle prime luci dell’alba. La corsa all’impazzata contro la razionalità, contro i te l’avevo detto e i tanto lo sapevo che sarebbe andata a finire così, contro la paura di morirne. Lo sappiamo quasi sempre, come andrà a finire, specie quando ci gettiamo in queste corse folli con lo stesso impeto con cui imbracceremmo un’arma per difendere chi più amiamo. Lo sappiamo, che là in fondo c’è un muro spesso come una quercia, di quelli che distruggono le auto di ultima generazione e le speranze cui ci aggrappiamo per dare un senso ai nostri giorni.

Correre finché senti così tanto amore che fa quasi male – annullando il confine tra Bene e Dolore – ché le emozioni irruente sono troppo poche per scegliere di rinunciarvi, persino quando ci fanno sanguinare. Correre come se fosse la sola cosa giusta da fare, il motore di ogni errore e ogni antidoto, la soluzione ultima alla paura più grande: perdere la persona per cui hai scardinato tutto il tuo universo.
Ho corso come una pazza, con e senza lui, sulla strada di un amore mai sopito nonostante tutto ciò che gli avevamo fatto. Ho lasciato che il mio cuore rischiasse la pelle come quelle bestie cui scoppia a furia di galoppare: ricordo il terrore – ostinato – di riprendere per l’ennesima volta una gara destinata a non avere vincitori, un disegno troppo grande per due esseri umani miseramente incapaci di farsi del bene. Ricordo tutto, in verità, come se quella sera fosse ieri: l’incontro in piazza, con l’aria uggiosa novembrina e gli occhi velati da dubbi e batticuore. Un bacio inevitabile e appassionato in piedi, per strada, reggendo un bicchiere di spumante mentre la mano cerca di non tremare. Una cena veloce, dove due volti tanto estranei quanto familiari si specchiano l’uno nell’altro: raccontarsi come va, cosa siamo diventati, cosa è successo alle persone intorno a noi, mentre gli occhi si perdono in sguardi senza confini, galleggiando nella voglia di piangere e ridere insieme. Poi il cinema, le mani giunte per tre ore, quel silenzio surreale che fa sembrare tutto possibile, che chiude il mondo fuori dalla sala lasciandoti il diritto di sognare a occhi aperti. E infine l’amore, che dalle lenzuola raggiunge il cuore, quello che come ho fatto a fare a meno del tuo corpo su di me anche solo per un’ora.

Corri cuore mio, corri all’impazzata in questa notte che riapre ogni ferita e soffia sul fuoco che ti ha bruciato l’anima, corri più forte della paura di chiedersi cosa diavolo stiamo facendo, corri verso quel muro che ti riporterà alla realtà, ma non prima di aver sfiorato di nuovo la gioia. Sentirai la vita pulsare nella disperazione di questa galoppata fino all’attimo prima dello schianto, avrai voglia di sperare, di pregare, di illuderti che vada a finire diversamente: non succederà, e lo sai bene. Ma tu corri lo stesso, anche solo per dare un senso a questa paura. Per svegliarti tra quarant’anni e pensare che hai conosciuto la follia, e l’hai assaporata fino all’ultima goccia.

Symbolum

Io non lo sapevo che Pietro stesse in Liguria. In un posto quasi di fronte al mare, accanto al belvedere dove tutti si fermano ad ammirare il paesaggio. Ho scoperto che la sua famiglia ha casa lì da tanto tempo, inizio ‘900 credo. Siamo stati a portata di pochi chilometri per molte estati senza ch’io lo sapessi, senza mai passare a dedicargli un minuto del mio tempo. Ancora me la ricordo, l’ultima volta che l’ho visto. La stanza col letto singolo, il silenzio surreale tra una frase sussurrata e l’altra, il golf scuro – forse blu – immacolato e le mani appoggiate tra petto e ventre. Era inverno, era tempo di cappotto – che forse, una volta entrata in casa, non avevo nemmeno tolto dalla fretta di salutarlo. Di vedere la sua espressione serena e riposata, senza grinze come solo la pelle dei bambini sa essere. Sembrava dormisse, Pietro, e col suo viso perfetto rendeva la morte meno spaventosa. Persino la sua.

Aveva undici anni, due più di me. Gli faceva male la testa, tanto, al punto che i suoi genitori decisero di portarlo in ospedale. Chissà se oggi sarebbe diverso, chissà se tenterebbero qualche cura anziché mandarlo a casa a finire il suo tempo, seppur con la più alta dignità possibile. Nel suo lettino, insieme a mamma e papà, e alla sorella: la rivedo seduta sul divano del salotto con quell’aria quasi strafottente e inopportuna, ché il dolore ti fa reagire in modi inaspettati che non vanno mai – mai – giudicati.

Pietro è morto sognando di guarire, attaccato alla sua quotidianità di bambino, con un compagno di classe che dopo scuola andava a fargli visita per raccontargli cosa avesse spiegato la maestra. È morto dicendo alla mamma che d’estate, quando sarebbe stato meglio, sarebbe andato in campeggio coi suoi amici: lo diceva sorridendo, convinto, in trepida attesa. Anche quando non è stato più in grado di parlare, anche quando ha perso la vista, non ha smesso di crederci e fantasticare: di stare meglio, di uscire da quel lettino, di prati verdi e aria pulita, di giochi e piccole avventure. Fino alla fine.

C’era tutta la sua scuola in chiesa, tanti soldatini composti e affranti. Erano gli anni in cui i bambini venivano iscritti a catechismo “d’ufficio”, in cui l’iter battesimo-comunione-cresima era un percorso standard per chiunque, inclusa me ovviamente. Delle inutili parole dell’omelia, degli inutili passaggi del Vangelo ignorati dalle orecchie assordate dalla parola “ingiustizia”, ricordo solo il canto che tutti ci sforzammo d’intonare quando il parroco disse che era il preferito di Pietro. Un canto che io non conoscevo, ma di cui ancora oggi ricordo ogni parola, poiché la sola cosa che mi confortò quel giorno fu conoscere per l’ultima volta qualcosa di suo.
Tu sei la mia pace, la mia libertà.

È in Liguria, Pietro, insieme ai suoi bisnonni nati nella seconda metà dell’Ottocento: è il bambino del cimitero, dicono. Mentre fissavo il nome inciso nel marmo, pensavo che oggi sarebbe un uomo, un papà. E porterebbe i suoi bambini in campeggio. E chiederebbe loro cosa hanno imparato di nuovo a scuola. E la sera, prima di coricarsi, li guarderebbe dormire beati nelle loro camerette, in un letto a una piazza come quello in cui ha sognato di vivere.
Finché avrò respiro, fino a quando tu vorrai.