Shelter

di Alice Ayres

C’era questa finestra, e fuori un balcone.
Oltre il balcone, Roma. Trafficata, caotica, rassicurante.
C’era un corridoio lungo, di quelli che a Milano non si vedono più, forse solo in casa dei nonni se hai la fortuna di averne ancora. Non è più tempo di salotti chiusi e tavoli da pranzo, oggi è tutto un angolo-cottura-parete-cucina-zona-living-open. Stranierismi che parlano di compromessi, sacrifici, crisi. Ma pur sempre con un certo fascino anglosassone, per carità.

C’era una finestra, e un cuore confuso –  il mio – che aveva percorso centinaia di chilometri su un Frecciarossa, chissà poi perché. Per scappare forse, da cosa non lo so. A volte più che fuga è solo voglia di sovrapporsi a un altro sfondo, restare immobile e vedere se qualcuno si accorge di te. Non è facile chiedere aiuto, per la mia voce non lo è mai stato. Come una bambina resto ferma, incrocio le dita e spero che qualcuno si accorga dei miei occhi stanchi, della ruga sempre più calcata che li separa, delle pause un po’ troppo lunghe tra una frase e l’altra. Di come mi rannicchio sul letto, di fianco, facendomi scudo con la coperta.
Essere tratta in salvo, che bello sarebbe. Senza domandarlo, senza nemmeno rendersene conto. Salvata dall’empatia, dalla delicatezza, da due orecchie bramose di ascoltare, di capire.

C’era dunque questa finestra e io guardavo oltre il vetro, in piedi, senza fiatare, per non lasciare che quel momento mi scivolasse via dai polmoni. Il momento in cui – all’improvviso – non sentivo più dolore. Tra quelle pareti così vicine al cielo, in un luogo senza né armi né brutte parole dove ero finita per caso. O forse per speranza. Qui potrei stare bene, ho pensato. Qui arriverei qualche venerdì sera con la valigia in una mano e il sorriso nell’altra, e mi sentirei al sicuro.

Ci sono tornata solo una volta, laggiù, poco è bastato per capire che i chilometri remano contro i tumulti. Che una persona consapevole di ciò di cui hai bisogno non è necessariamente in grado di dartelo. Che per superare gli ostacoli – anziché aggirarli – non basta riempirsi gli occhi delle luci di Roma. Eppure qualcosa di quella stanza si è depositato nel cuore, a cullare la pace che vi coltivo dentro: la certezza che ci si possa fidare delle persone, non chiunque ma di parecchie sì. Lo stupore di sentirsi compresa, accolta, accettata nonostante i miei difetti; di scoprire che non tutti vogliono cambiarti o trasformare le tue debolezze in una colpa ignorando le tue cicatrici. La serenità di capire che osservare il mondo da quella finestra – ammirando il buio farsi alba e le luci delle auto colorare la notte – altro non era che imparare a guardare avanti. Avere fame di futuro. E sentire il cuore tornare a battere.