Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Mese: luglio, 2012

Pioveva

Come quando la notte ti svegli perché il cielo sembra tuonarti addosso. Come quando le strade si allagano e ci si rintana in casa come ladri, come cuccioli. Come quando vorresti fregartene di tutto e andare sotto quell’acqua a girare su te stessa anziché lasciare che ti renda malinconica. Come quando a distanza di tempo ti viene da dire “Ti ricordi che diluvio quel giorno?”.

Pioveva come se il cielo volesse rendere quell’incontro speciale, lavando questo sporco mondo per offrircelo rinato, pulito, teatro dei nostri sguardi.
Stavo alla finestra come una bambina che aspetta Babbo Natale anche se sa che non esiste. Come una donna che ha il cuore in gola dall’emozione, contro ogni logica.
Ho visto la sua auto fare retromarcia, contromano, per tutta la salita, per non farmi camminare sotto l’acquazzone. Non gli ho mai detto che sarei corsa giù per quella strada anche scalza, sotto al diluvio, pur di potere finalmente vedere il suo sorriso.

Sono salita sulla macchina, trepidante. Ho intravisto un velo d’imbarazzo sul suo viso e mi sono chiesta se anche lui scorgesse la timidezza nei miei occhi fieri e spaventati.
L’ho guardato, finalmente, e la sola cosa che ho sentito dentro – quel tipo di sensazione vera quanto la vita – è stata: Voglio farlo felice.

L’ultima volta

“Se vedi un posto all’ombra, accosta” chiedo io.
Non voglio la luce mentre ti dico addio.
Non voglio farti stare al caldo, lo detesti.

“Non so cosa dire”, mi dici.
Quel ‘non’ con cui condisci troppe frasi ti rovinerà la vita. Quella vita che io per te sogno leggera e piena di ‘sì’.

“Non piangere, non rendere tutto ancora più difficile”, aggiungi.
Già, tu vedi difficoltà nei sorrisi, figuriamoci nelle lacrime.

Nemmeno sai quanto piangerei ora, se solo tu fossi in grado di sopportarlo. Non sai che mi aggrapperei alla carne della tua schiena come una bambina che ha paura del mondo, cercando la pace – l’oblio – nei singhiozzi liberatori che mi sto negando, quelli che esprimono nel solo modo possibile lo sfinimento di una donna che lotta sempre da sola, e – sola – perde sempre. Rimpiazzata, tralasciata, scartata, dimenticata.
Ci metterei tutti i rumori della vita che non verrà, in quel pianto: i lamenti che sto trattenendo in gola, i tuoi silenzi capaci di essere assordanti, la mia risata sgraziata e buffa, l’acqua che scende dal rubinetto della montagna mentre laviamo il pentolino sporco di pesto, il tonfo dell’aereo che atterra nella tua città, le idiozie che ho detto mentre mi filmavi a tradimento, il cigolio della porta del frigorifero pieno di prelibatezze da farmi assaggiare, la pioggia battente del nostro primo incontro, le canzoni che ci saremmo dedicati, i film che ti avrebbero fatto emozionare, i nostri gemiti tra le lenzuola e sulla scrivania e sulla sedia e sul tavolo del mare e in cucina e sul divano, il suono secco della porta di casa tua chiusa alle mie spalle e che mai più varcherò.

Ti guardo senza sosta, perché so che è l’ultima volta che posso averti negli occhi. L’ho fatto timidamente anche ieri notte, al posto di dormire.
Tu invece guardi i passanti oltre il parabrezza, preoccupato che qualcuno mi veda piangere, che qualcuno ci veda insieme. Mentre io penso a te, a tutto il bene che ti auguro – nonostante tutto – che non è esprimibile a parole, tu ti curi di ciò che pensa la gente.

Tra poche ore io sarò solo un ricordo, di quelli che ci mettono poco a sbiadire, di quelli che in fondo non era poi così importante’.
Tra poche ore starai già stringendo un’altra mano, come niente fosse. Come se io non fossi. La farai sorridere e divertire e sentire corteggiata, ti sentirai migliore, farai battere il suo cuore.

Ma al mio, di cuore, chi penserà?

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