Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Mese: febbraio, 2012

Quattro volte senza te

Sul suo letto ad aspettarmi c’erano delle lenzuola scure e due asciugamani. Li aveva preparati dieci giorni prima, mentre partiva per Roma alla ricerca del sole, dell’amore, della rivincita di una vita sentimentale difficile. A Francesco Parigi non era mai piaciuta: troppe nuvole, troppa pioggia, troppo grigiume, le stesse cose che detestava di Milano. Io invece, vagabonda per vocazione, ero ben felice di fare un salto in Francia, ma ancor di più di rifugiarmi nella sua casa. Lasciarmi le chiavi dell’appartamentino di Rue Montgallet – dove faceva entrare pochi eletti – era un modo di dirmi “Per me sei importante”, un piccolo trofeo che aveva illuminato il mio settembre.

Proprio in quella casa, in un caldo mattino di sole – tra i suoi libri, le riviste, i vestiti e le perle vintage che scovava nei mercatini – mi sono accorta ancor di più di quanto la mia vita fosse speciale grazie a lui. Era il tipo di amico a cui telefoni appena hai fatto una stronzata, che cerchi quando ti senti una perfetta idiota, a cui puoi raccontare senza imbarazzo perché stai piangendo; quello che vuoi in ospedale mentre nasce tuo figlio, o accanto quando hai paura di aprire i risultati degli esami del sangue. Abbiamo passato nove anni a prenderci in giro, combattendo le nostre fragilità con un sorriso: io per natura rido spesso, con poco, con chiunque, ma le risate con lui erano diverse, davano un senso al Tutto. La sua dolcezza si manifestava senza preavviso, in una battuta ironica che sapeva descriverti alla perfezione, in un silenzio che sussurrava “Ho paura anch’io, non sei sola”, nell’assoluta sincerità con cui mi diceva “Sei una delle donne più intelligenti che io abbia mai conosciuto”.

Quando sono andata via da Parigi gli ho lasciato sul letto le sue caramelle preferite, i Goldbären della Haribo. Inizialmente avevo pensato di scrivergli un biglietto con tutte le cose pazzesche che avevo pensato di noi in quei giorni, ma in fondo il nostro rapporto non aveva bisogno di parole, solo di piccoli gesti. Il suo era stato preparare tutto per il mio arrivo, con la delicatezza che solo i puri di cuore possiedono. Il mio è stato regalargli un sorriso da bambino al suo ritorno a casa.

“Il miglior regalo. Ever”. Quando ho ricevuto questo messaggio mi sono messa a piangere, non so neanch’io perché. Sorridevo nell’immaginarlo intento a fare fuori un intero pacchetto di caramelle in meno di un’ora; soffrivo per non averlo visto in aeroporto a Parigi, dove avremmo dovuto incrociarci se solo non avesse deciso – con la mia benedizione – di restare una settimana in più a Roma.

È stata l’ultima cosa che mi ha scritto.

Francesco ha lasciato la vita naturalmente, di notte, nel sonno. È andato a dormire tra le lenzuola che io stessa gli avevo preparato con cura senza sapere che non si sarebbe più svegliato, nel modo in cui vorresti perdere le persone che ami quando sono anziane. Lui era giovane, bellissimo, pieno di talento. Ansioso, maniacale, capace di annegare in un bicchier d’acqua, e per questo tanto speciale.
C’è un silenzio irreale nella vita di chi resta, è il suono ovattato della vergogna d’essere ancora qui, dell’incapacità di spiegarsi perché proprio lui e non un altro. E così oggi, a quattro mesi dal giorno che mi ha reso orfana di un grande amico, a far rumore è solo quel silenzio.

Perché proprio Alice Ayres

“Elis Eirs” (così si pronuncia) era una giovane cameriera che a fine Ottocento si sacrificò per salvare tre bambini durante un incendio a Londra, città che oggi – nel piccolo Postman’s Park dietro a Saint Paul’s – ne offre una targa commemorativa. Quando due anni fa mi sono trovata a dover scegliere uno pseudonimo da usare per iniettare il mio veleno nella Rete, ho pensato subito a quel nome, reso celebre in tutto il mondo dal film Closer.

È stato proprio il personaggio interpretato da Natalie Portman a ispirarmi, forse perché a differenza della media delle donne non mi identifico in ragazze acqua e sapone da filmetto a lieto fine, né in annoiate riccone alla Sex & the City. Io mi rifletto in quella ragazza vagabonda, un giorno fidanzata modello e quello dopo troia, capace di proteggersi – mentendo – dall’uomo che ama, nella donna libera e indipendente che in un modo o nell’altro ce la fa sempre. Intendiamoci, Closer non è il film della vita, e il suo cast del tutto random ne è la prova – avete mai visto quattro attori meno omogenei tra loro? La morale della favola che racconta però è una gran verità: la natura umana, al di là dei buoni sentimenti, è sempre un po’ malefica. O perversa. O egoista. O incorreggibile. O tutte queste cose insieme.

Alice Ayres è la crasi della donna che sono, una che si è fatta spezzare il cuore dal suo primo amore, ma che per prima l’aveva tradito. Una che adora chi le vuole bene, ma ama di più se stessa. Una che non fingerebbe mai di essere un agnellino, tanto odia il perbenismo e la falsità. Non ho mai creduto nelle persone che si descrivono sempre con belle parole, parlando di sentimenti, di Amore, di Amicizia, come a voler dimostrare di avere un cuore. In questo alcune donne sono le peggiori: si dipingono come piccole vittime della cattiveria altrui e paladine del calore umano, poi invece sono le prime a mettere zizzania, ad avere sempre una parola cattiva per tutti – che sussurrano senza farsi scoprire, per mantenere la facciata ‘sensibile’ che si sono costruite. Ecco, ‘sensibile’ è proprio un aggettivo che mi sta sul cazzo, la parolina-jolly che le persone usano per sembrare profonde. A me le ragazze ‘sensibili’ che piangono per ogni singola stronzata, che si fanno prendere per il culo dal primo che passa che per scoparsele blatera due minchiate finto-romantiche, che ti asciugano su come l’arte le commuova, non sembrano lodevoli ma solo cretine. E pesanti. La sensibilità, intesa come vulnerabilità, non è un pregio, è un handicap.

Io non mi vergogno di essere (anche) una stronza, mi spaventerebbe molto di più dover rinunciare alla mia natura solo per ‘piacere agli altri’, per ‘stare simpatica’, per ‘quieto vivere’. La mia è anche una scelta di economia: faccio molto meno fatica a stare sempre dalla parte dei miei pensieri, anche quelli più scomodi, piuttosto che dover fingere di stimare persone a cui, se potessi, impedirei di riprodursi. Patti molto chiari, amicizia lunga: con le brutte persone come me funziona così.

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