Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Tag: solitudine

Rush hour

Fretta. Di capire, di godere, di consumarsi di passione. Di scoprire come finirà, come ti ferirà, come non avrà avuto senso nemmeno iniziare. Fretta di conoscersi, annusarsi, inebriarsi di pelle e occhi e lingua, fino a quando l’odore e il sapore prima sconosciuti diventano all’improvviso familiari, necessari, inconfondibili. Fretta di avere paura, ché senza paura ci si lascia troppo andare, si viene feriti e abbandonati – e allora tutta questa fretta forse andava usata per darsi il massimo nel più breve tempo possibile, prima dell’inevitabile capolinea. Fretta del futuro solo per vedere se ci saremo ancora, se le mie dita continueranno a carezzare il suo orecchio mentre lo guardo appisolarsi. Fretta dell’ “a domani” che da speranza si fa promessa, poi delizia, infine certezza. Fino a quando proferirlo non serve, ché le parole nulla possono contro la chiarezza dei gesti: fretta di fatti, ecco sì, di concretezza, di un libro che non si giudica dalla copertina ma dalla trama, di un film che fa ridere entrambi, abbracciati sul divano – e se ogni tanto commenti una scena ad alta voce non muore nessuno, ché tempo di tacere mica ce n’è. Fretta di chiacchiere, confronti, scambi, dibattiti, ma ancor più di silenzi, quando al risveglio l’orologio reclama attenzione ma tu hai occhi solo per quel volto, e sorridi naso contro naso come gli eschimesi, senza proferire verbo.

Fretta di non sbagliare più, e quindi sbagliare in modi nuovi – credendoci – ché la sola fretta sbagliata, in fondo, è l’arrendersi a un cinismo senza ritorno.

Zeppe

Le avevo comprate in Monte Nero, in un negozio segnalato da una collega. “Vai lì che costano poco e sono carine”, aveva detto. Ero uscita presto da sola, a piedi lungo la vecchia darsena, per poi costeggiare Viale Bligny e ancora Sabotino. C’era il sole ed ero contenta: era un sabato mattina normale, in cui uscire di casa senza – stranamente – l’ansia di lasciarlo a fare chissà cosa, a scrivere chissà che a chissà chi. Per rincasare avevo preso il 9, con il sacchetto appoggiato scrupolosamente sulle gambe e quella stupida contentezza di quando si riesce a spendere due soldi per sé, dopo tante rinunce. Di quando vorresti fermarti a comprare il pane in un forno nuovo solo per assaggiarlo e valutarlo insieme a lui – complici di golosità – oppure passare al mercato a scegliere i pomodorini più invitanti che ho proprio voglia delle nostre bruschette. Di quando sorridi aprendo la porta di casa (per le commissioni brevi mi era permesso prendere il secondo mazzo di chiavi) nell’attesa di rivedere il suo viso. Nella speranza che non sia di malumore, che ti accolga con una frase dolce. Che quel sabato mattina di sole sia perfetto per davvero, non solo nella tua testa.

Piacevano le scarpe sobrie, a lui. Gli piaceva che la sua donna non fosse appariscente, salvo poi girarsi a guardare tutte le altre, facendoti sentire sempre una fila indietro nella platea delle sue fantasie. Ogni volta che tiro fuori le zeppe – le uniche, peraltro – rivedo davanti a me la stessa scena: lui che dice che mi stanno bene, che non sono male, io che soddisfatta della sua approvazione ripongo con cura il sacchetto all’ingresso. Ripenso alla passeggiata insieme, dopo pranzo, verso la sua libreria preferita: io mi facevo attirare dalle copertine in bella vista dei volumi del momento, dalle loro pagine ruvide e corpose; lui andava certosinamente alla ricerca del titolo preciso di qualche autore americano. Mentre si avvicendava tra gli scaffali, prima che lo accompagnassi al bar a prendere un caffè – talvolta uncaffèeunabottigliadiacquanaturale – restavo a osservarlo tra un corridoio e l’altro, il mio sguardo come una sapiente carrellata alla Sorrentino: lui, così vicino e così lontano, io così scioccamente innamorata. “Il mio lettore”, pensavo a volte tra me e me in quegli istanti, ché addormentarsi con la testa sul suo petto mentre leggeva un libro metteva a tacere ogni ferita, persino quelle inflitte da lui.

Era un sabato di sole, di saldi, di meritata leggerezza. Quel sacchetto all’ingresso l’ho portato via di corsa, esasperata e rabbiosa, sbattendo la porta: l’ennesima illazione, l’ennesima scena muta, l’ennesimo attacco senza fondamenta, l’ennesima messa in discussione della purezza del mio sentimento. Crudele, come la paura di lasciarsi andare. Come la pretesa di avere una compagna a tratti invisibile per potersi concedere il lusso di notare tutte le altre.
Non le indosso quasi mai. Perché ogni volta che provo a calzare quelle scarpe con la zeppa mi torna in mente quanto sia facile, quando non si ama, rovinare una giornata di sole.

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