Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Tag: amore

A mia nonna

Le tavole imbandite mi fanno sempre pensare a te, forse perché ricordo gli ultimi Natali a casa nostra, forse perché tu – come mamma – non sei mai stata una tipa da tovaglietta americana, da pasta servita nel piatto piano, da posate per la frutta grandi quanto quelle di primo e secondo. Forse perché, semplicemente, amavi mangiare: l’hai fatto con gioia, fino all’ultimo, e me l’hai pure insegnato, nonostante i miei problemi di salute infantili, l’inappetenza cronica, il sottopeso che mi ha accompagnata fino alle medie. Ricordo le tue mani che giocano con le briciole sulla tovaglia a fine pranzo, abbassando lo sguardo tra un discorso e l’altro: le toccavi con pollice indice e medio, le spostavi col coltello muovendo il braccio fasciato in uno dei tuoi eleganti cardigan colorati. Ricordo le pastiglie da passarti a colazione, pranzo e cena (ogni estate, in montagna, dovevo ripassare la posologia per non confonderle) e il modo in cui, una volta appoggiate sulla tavola, si mimetizzavano col colore del tessuto. Ricordo il momento del caffè, che tuttora non bevo, e la goccia nella zuccheriera che trasformavi in una dolcissima gemma ambrata con cui viziare il mio palato.

Ho sempre saputo che mi saresti mancata, ma non avevo capito che crescendo sarebbe stato peggio. Che avrei guardato con invidia tutti i miei cugini maggiori che ti hanno avuto accanto prima di compiere le scelte più importanti delle loro vite. Che hanno trovato in te quelle risposte che i nostri coetanei non possono darci, e che ascoltiamo meno volentieri quando hanno il suono della voce dei nostri genitori. Mi guardo indietro, di pochi anni, e vedo tanti errori che – chissà – forse con i tuoi consigli avrei evitato. Ti immagino in salotto, seduta sulla tua poltrona dallo schienale alto – la stessa che oggi, rifoderata, accoglie le mie terga nella casa al lago – a spiegarmi in poche, chiare parole che certe persone, specie di sesso maschile, semplicemente non ci arrivano. A fare spallucce, come a dire poverini, ma di che stiamo parlando. Tu che a nonno – che pensava che volessi essere portata presto all’altare – rispondesti “Ma chi te l’ha chiesto?”. Tu che durante la guerra sei sfollata lontana da casa, portando avanti due gravidanze, e mai hai parlato di quel periodo come di una cosa dolorosa di cui lamentarsi. Certo, eri di un’altra generazione. Certo, erano altri tempi. Ma anche nel Nuovo Millennio la tua forza si è dimostrata cosa rara, tanto che quando – occasionalmente – scorgo parte del tuo animo pragmatico e incrollabile in me mi sento miracolata, e penso che allora forse non ho sbagliato tutto nella vita.

Potrei andare avanti all’infinito, e raccontare di come tu amassi i film privi di sesso e volgarità, ma anche le battutacce a doppio senso da osteria. Di come, durante i canti, la tua voce a messa svettasse sopra quella di tutti, anche se io la ricordo con più trasporto mentre intona la melodia di “What’s up?” dei Four Non Blondes. Della tua repulsione per ciò che era integrale, e per lo yogurt che ai tuoi tempi aveva le bestioline vive dentro. Di come non avanzassi mai nulla nel piatto, del profumo delle pietanze che finché hai potuto hai cucinato per chiunque venisse a sedersi alla tua tavola, dove l’acqua era rigorosamente frizzante: cipolle ripiene, pesche al cioccolato e amaretto, arrosto, risotti di ogni sorta. Il Piemonte, tutto in una donna sola.
Di come, infine, mi sia sdraiata accanto a te sul lettone, l’ultima volta che ci siamo viste. Mi hai sorriso e con la voce un po’ da bambina – come capita spesso agli anziani pur quando rimangono lucidi come sei sempre stata tu –  hai esclamato “L’amore mio!”. Su quel cuscino mi addormento ogni sera, sperando che i miei sogni siano sempre anche i tuoi.

Di malinconia

C’è che la malinconia è un po’ una droga e un po’ una malattia.
C’è che non ha niente a che fare con la solitudine, intesa come paura di stare soli. È sua compagna semmai: la sostiene, la condisce, la infetta.
C’è che la malinconia sa prendere il sopravvento sulle tue pulsioni, i princìpi, le migliori intenzioni, l’integrità più ostinata. Un minuto sei euforico, quello dopo avverti un peso dentro, un fardello che solo chi erra nell’esistenza comprende, una valigia – a tratti leggera, a tratti insostenibile – che sai di trascinare sempre dietro ai tuoi passi.
C’è che in un istante la percezione della realtà cambia, e passeggiare in una sera di pioggia nella tua città – col vento tiepido a carezzarti il viso – si trasforma all’improvviso nella scena di un film in bianco e nero che ti racconta qualcosa di mai dimenticato. Qualcosa che in realtà non vorresti nemmeno rivivere, ma che là dentro – tra lo stomaco e il respiro – si fa ancora sentire.

E allora ridere genera come una eco distorta, sebbene i rumori non possano niente contro il tuo silenzio. E allora chiacchierare maliziosamente con una persona che vuole portarti a letto ha il sapore blando di una storia nota, già scritta, già vissuta. Di un palliativo che t’illude di rinascere più fresco e leggiadro, come se guarire fosse davvero possibile. È tutta contraddizione umana, è tutto cuore tradito che reclama il suo spazio: anche se non vuoi niente di ciò che “ti manca” non puoi fare a meno di ripensarci, di arrovellare i battiti intorno alle cose perdute che sapevano di buono, di casa. Perché alla fine la malinconia è un po’ questo: la ricerca trascinata di una casa che non hai saputo conquistare, che hai sfiorato e rivorresti indietro.
Per i malinconici la serenità perenne non esiste, c’è sempre un ammanco, un condotto buio, un senso d’incomprensione che parte dagli altri e deposita polvere sugli occhi.

C’è che la malinconia è una percezione esagerata di ciò che cura e di ciò che fa male, un filtro che permette di apprezzare, penetrare, riconoscere la Bellezza come nessun altro, ma anche di sentire l’anima accoltellata davanti agli aspri dettagli del mondo. Gli anziani invisibili che con immensa fatica camminano per strada mentre i pedoni frettolosi li superano sbuffando. Gli occhi di una persona che dice di amarti e non si accorge nemmeno del dolore che porti dentro, e che il suo egoismo alimenta. I tuoi genitori, che hai visto tramutarsi da figure autoritarie a persone, per poi – lentamente – cominciare a invecchiare senza che lo riuscissi a impedire, senza poter restare bambini così da non lasciarli andare, da non vedere i loro limiti di esseri mortali.

C’è che la malinconia riconosce i suoi simili, e con alcuni crea un legame, un arpione, un brusio di sottofondo che non smette mai. Come quando stai in silenzio accanto a una persona e ti sembra di non dover aggiungere nulla. Come quando, al di là di ogni più feroce incomprensione e disprezzo, sai che tu e lui vi porterete sempre dentro.

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