Far away

di Alice Ayres

Era l’ultima volta, l’ultima insieme. Ma lui non lo sapeva. La sua era l’arroganza di chi scambia una donna per merce – persino quando dice di amarla – e crede che sarà sempre a sua disposizione, in un modo o nell’altro. Scegliendo il ristorante dove cucinano il suo piatto preferito, dicendole che è diversa dalle altre, azzardando promesse che durano meno di un orgasmo. E l’orgasmo infatti è stato solo suo, rapace, frettoloso, animalesco. Di quelli che quando senti il piacere schizzarti la pelle ti sembra quasi che abbia voluto liberarsi di una colpa, di un peso, che t’abbia usata per agguantare un momento di pace in cui tu sei persino di troppo. Tu, che sei diversa dalle altre, sì, perché le altre possono ancora concedersi il lusso di illudersi, tu non più. Ormai sai che chi hai accanto non è niente di ciò che ha detto – e crede – di essere, sai che quello che chiama “fare l’amore” è solo un modo di distruggere anche l’ultimo – malinconico – brandello di sentimento.

L’ho capito mentre mi entrava dentro, che sarebbe stata l’ultima volta. Da quel calore che bruciava come una vergogna, una violenza autoinflitta. Dalle spinte che anziché accendermi mi anestetizzavano il cuore. Eccolo, l’epilogo della passione che credevamo invincibile: un amplesso di fianco, in un letto che pare una latrina di secrezioni altrui, dove ognuno pensa a ciò che vuole. Lui a quello che lo eccita, al mio culo bianco e morbido, al mio sesso pronto all’uso; io a come quel momento sia una metafora perfetta di un rapporto sentimentale in cui solo quando si scopava a novanta succedeva di guardare nella stessa direzione.

E poi l’abbraccio, automatico, che gli uomini piccoli e indefiniti riservano pure alle puttane. Quell’addormentarsi sereno – svuotato – noncurante della desolazione emotiva al proprio fianco. Sono rimasta immobile a fissare la parete: ormai l’affetto era talmente esaurito che non avevo nemmeno l’impeto di rivestirmi e andarmene. Non mi interessava più fare nulla che scatenasse il minimo dibattito; non avevo alcuna voglia di spiegarmi né di ascoltare parole che avrebbero fatto esondare la misura colma del mio disgusto. Quella persona, a cui in passato avevo dato tutto, e che si era presa tutto, non valeva più alcuno sforzo.

Quando la sua sveglia è suonata, a destarsi è stata solo la mia nausea. Intorno a me un film già visto: la stanza sempre buia, il rumore assordante della macchina del caffè, il computer acceso senza nemmeno prima guardare fuori dalla finestra, l’espressione insofferente verso una vita che non gli ha fatto mancare nulla. Era tutto così sbagliato e irrecuperabile da farmi venire voglia di dare fuoco a ogni ricordo di “noi”.
Non c’era più posto per un bacio sulla fronte prima di uscire di casa, per cucinare il pranzo da mangiare in ufficio, per sperare che “a suo modo” lui tenesse a me, per le cene fuori finite a ridere pure dopo un litigio, per le lenzuola da piegare in quattro prima di metterle sullo stendino. Non c’era più posto, nella mia vita, per una persona incapace di amare. Per uno sconforto senza antidoto. Per una causa persa da sempre.

Andare via e non tornare indietro è il più grande regalo che ci si possa fare.