Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Tag: lavoro

Libertà ritrovata

Si pensa sempre che essere pagati per fare qualcosa che ci piace sia una grande fortuna, il lavoro della vita. Non è così, non sempre.
È dall’età di sei anni che mi dicono che sono brava a scrivere, ma io non ci ho mai creduto tanto. Certo, so esprimermi meglio della media dei redattori dei magazines italiani, ma non basta così poco per supporre di avere un qualche ‘talento’, cosa che tra l’altro manco m’interessa. Non me ne è mai fregato nulla di essere letta da qualcuno, ho sempre interpretato la scrittura come un bisogno personale, nato da me e rivolto a me. Non cerco virtuosismi stilistici o effetti speciali, mi limito a trascrivere i miei punti di vista così come sono, senza filtri. Ecco, ‘senza filtri’ è la definizione che mi si addice di più: è così che che parlo, che digito, che twitto, che mi creo amici e nemici. Senza pentimenti.

Fino a un paio di settimane fa venivo pagata per scrivere – tra le altre cose – un blog a sfondo sessuale. All’inizio mi sembrava divertente essere retribuita per dire la mia (ammesso che una somma che non ti cambia né la vita né la settimana possa definirsi retribuzione), era come il lavoro giusto per la persona giusta. Mi sbagliavo. Quando si redige su committenza – anche se si affronta l’argomento più interessante del mondo, anche senza particolari limitazioni espressive – si scivola pian piano in un’impercettibile prigionia. Scrivere per dovere e non per piacere snatura la scrittura stessa, quel gaudio ‘autobiografico’ che provano le persone come me, logorroiche e colme di pensieri, quando mettono nero su bianco un’idea, alleggerendo il sovraffollamento emotivo che le contraddistingue. Se ci si ritrova a scrivere di un solo tema, dovendosi calare in un autore one track minded che non sa far altro che parlare sempre delle stesse cose, la questione si fa identitaria: le parole vendono un personaggio che somiglia sempre meno a chi sta scrivendo, proiettandone solo una sfaccettatura a scapito di tutte le altre.

Ho parlato di sesso e uomini per due anni, con ironia, con accanimento, con passione, con ferite ancora da rimarginare, con sensualità, con cinismo e disillusione. Sottoscrivo tutto ciò che ho postato in quel tempo (e che ho qui annoverato nella categoria “Vecchia roba retrodatata”), ma adesso ho voglia di cose nuove, spontanee, variegate. Ho voglia di me. Che si tratti ancora di lamentele indirizzate al sesso forte, di riflessioni esistenzialiste o dei ritratti delle persone che mi hanno cambiato la vita, ora sono libera di scrivere ciò che voglio, in uno spazio finalmente sobrio dove poter essere più di una semplice ‘dea del sesso’.

Orrori madornali atto II: l’abuso di potere

Uno dei motivi che rendono gli uomini molto simili tra loro è il fatto che apparentemente facciano di tutto per alimentare i più beceri e scontati cliché, uno fra tutti l’ambiguità comportamentale sul lavoro. Ora, io sono la prima che si eccita per le cose proibite e che andrebbe a letto proprio con le persone che sarebbe meglio evitare (docenti universitari quando ero studentessa, amici di famiglia del mio ragazzo quando ero fidanzata, ecc), ma non al punto di far prevalere il dato personale su quello lavorativo.

Quello del capo che fa lo scemo con la dipendente è uno degli scenari più grotteschi e umilianti che ci siano: umilianti per lui, mica per lei. L’uomo che sfrutta la propria ‘posizione di potere’ per fare il viscido è doppiamente coglione: da una parte perde il rispetto umano che chiunque vorrebbe nutrire nei confronti di colui per cui lavora, offuscando anche il proprio talento professionale (laddove ci sia); dall’altra si butta fragorosamente la zappa sui piedi, dacché è ben noto che (quasi) tutte le donne siano sì attratte dall’uomo ‘di potere’, ma solamente fintanto che lui resta avvolto dalla sua ‘aura di capo’ apparendo irraggiungibile anzichè l’uomo di merda che invece è.

Certo, non è che nei casi di abuso di potere le donne/vittime siano sempre innocenti, ma ciò che le distingue dal maschio è l’acume di saper provocare – quando lo fanno, cioè QUASI MAI – in un modo così sottile da non poter essere identificate come ‘colpevoli di seduzione’. Gli scemi insomma sono quelli che ci cascano, e che per di più comportandosi come undicenni arrapati alle prese con le prime seghe finiscono col diventare ai nostri occhi l’incarnazione dell’Antisesso. E pensare che assumendo un atteggiamento unicamente serio e professionale avrebbero alimentato le nostre fantasie al punto da farci (forse) capitolare tra le loro lenzuola.

Tutto questo forse non accadrebbe se il rispetto per la donna, a fine 2010, esistesse davvero.