Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Tag: donne

Senza colpe

Io me lo ricordo com’era essere gelosa. Una prigione, un’angoscia costante, un perpetuo Ma che mi sto facendo? E ancora, Ma che mi sta facendo?
Ricordo notti sola senza riuscire ad addormentarmi, mani ghiacciate persino sotto al sole, la tachicardia che al mattino apriva gli occhi – mi apriva il petto – prima di me. Svegliarsi di soprassalto di notte e guardarlo dormire, nel disperato terrore – o consapevolezza – che non fosse mio. Lui, che per primo aveva avvelenato la nostra relazione di dubbi e ossessioni, lui che vedeva il male ovunque fino a rendersi cieco dinanzi al mio amore, ché non fidarsi è sempre la scelta più semplice ma così agendo, involontariamente e quasi per osmosi, s’insegna all’altro a fare altrettanto.
Zoppicavamo insieme io e lui, nel desolante scenario di una guerra senza meta. Tra le macerie, le poche cose buone che ancora tenevano in piedi la nostra storia: le abbiamo abbattute tutte, una a una – complici di distruzione – fino a quando possedersi o odiarsi era un po’ la stessa cosa. Fino a che il rispetto non lo negavamo solo l’uno all’altra, ma persino a noi stessi.

Mi è successo solo una volta di fare quella fine, piccola femmina insicura che annaspava nella paranoia e al tempo stesso sperava di sbagliarsi. Ma una donna non si sbaglia mai, e infatti nessuno dei miei dubbi – delle certezze che avevo troppa paura di ripetere ad alta voce – si è rivelato infondato. Eppure non me ne sono andata.
Eccolo lì, il paradosso della gelosia: più sai di vederci giusto, più non accetti di perdere una persona che, in fondo, è già lontana. Nel momento in cui dovresti solo sciacquarti il viso e riconoscere le rughe che quel veleno ha portato sulla tua pelle di porcellana, nel momento in cui ogni organo del tuo corpo chiede di porre fine a quello strazio, anziché mollare la presa ti ci aggrappi. Coi denti, con le unghie, col terrore di chi sa di aver sbagliato tutto. Di aver puntato tempo, lacrime e sorrisi sul cavallo dopato, non su quello veloce per davvero.

È una vita nuova, dopo certe relazioni. Il tempo scorre senza più sembrare un costante countdown che precede una catastrofe, la mente si scopre libera di pensare a tante cose nuove, a sogni, frivolezze, ambizioni che la coltre di paranoia aveva sepolto vive. All’improvviso nessuno può più condizionare la tua giornata, non ci sono altre case, altri occhi, altri telefoni, altri vestiti, e il rammarico per aver compiuto troppe inutili rinunce si mescola alla gioia di non doverne più fare. Alla (aspra) consapevolezza che sarebbe bastato fermarsi subito: alla prima avvisaglia, all’ingresso in scena di quella dilaniante possessività.

Con la lucidità del poi, ho imparato una lezione: indipendentemente da quanto sia motivata, dal vederci lungo, dall’istinto che non sbaglia mai, da eventuali ferite che si fanno scontare a terzi, in fondo la gelosia non è altro che un campanello d’allarme. Una scialuppa di salvataggio. Il modo semplice ed efficace con cui la dignità ti dice che quella storia non può funzionare, che navigare in mare aperto non è per tutti. Perché in realtà non riuscire a combaciare non è affatto una colpa, come non lo è abbandonare la nave, lasciarsi alle spalle, dimenticarsi.
Se sei geloso della tua donna, del suo passato, del modo in cui si veste o piace alla gente, evidentemente non sei pronto ad amare incondizionatamente, a volerla per ciò che è davvero, e questo priva la relazione di ogni ragione d’essere. Se sei gelosa perché sei certa che lui ti nasconda qualcosa, che si senta con altre, che ti dica bugie su cosa fa, che abbia incontri di nascosto, evidentemente non ti fidi o sai di non poterti fidare (non c’è poi tanta differenza), e nessun rapporto può reggersi su tali sabbie mobili. La conclusione da trarre e attuare quando si sente il respiro iniettato di gelosia è sempre e solo una: let’s call it a day. Ammettiamo la sconfitta, l’errore da dilettanti, il sogno senza appigli. Prima di finire troppo oltre.

E invece no. Ostiniamoci ad andare avanti, a scavare, a sospettare, a fingere che non sia odio, a farci del male piuttosto che mollare la presa. Consumiamo il fegato di dubbi, lo stomaco di acido bollente, gli occhi di lacrime nevrotiche, le labbra di morsi. Assicuriamoci che non resti più nulla di noi di cui sorridere, che il sesso perda ogni connotazione romantica, che qualsiasi pretesto – persino il tono frainteso di un sms – porti a una lite inutile pronta ad alimentare il fuoco del veleno. Torniamo a casa la sera senza reale voglia di vederci o parlarci, mentiamo guardandoci negli occhi quasi per sfida, commettiamo errori raccontando a noi stessi che è l’altro ad averci portato fin lì. Impegniamoci – come mai abbiamo fatto quando la posta in gioco era la gioia – a dimostrare ciò che siamo stati incapaci di riconoscere: che non siamo fatti, né pronti, per stare insieme. E che la sola cosa che ci riesce davvero bene, insieme, è essere immaturi. Nascosti dietro alla parola amore come i bambini che – coprendosi gli occhi – credono di diventare invisibili.
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Crescere

Sai cosa mi emoziona più di un amplesso che strappa il respiro? Delle mani sul collo pronte a sottrarmi l’anima, di sentirlo dentro di me quasi ad allagarmi il cuore, della testa sudata che sussurra all’orecchio l’indecifrabilità del piacere? Dei baci, delle unghie sulla schiena e i morsi sulla pelle candida, delle contrazioni che nell’orgasmo abbracciano i fendenti della passione?
È il silenzio.
Il silenzio di chi sa. Di chi si conosce. La quiete che fa da contrappeso – da àncora – al tumulto irrazionale senza cui la mia non si può chiamare Vita.

Il silenzio interrotto dai tasti battuti sulla tastiera quando l’ispirazione sopraggiunge improvvisa, e allora chi hai accanto tace e si fa cullare da quel ticchettio, dalla bellezza di vedere nell’altro un vulcano in azione. Il silenzio del non aver bisogno di chiedere il caffè a fine pasto né di specificare senza zucchero. Di uno sguardo duro stemperato dal sorriso quando una lacrima di commozione si sporge verso le mie gote. Il silenzio di quando il pensiero di stare sbagliando tutto solca in un istante la fronte, e chi ti guarda lo capisce, e sa quanto fa male l’incertezza mentre ti accoltella. Il silenzio di chi non cerca un’emozione passeggera – come i ventenni che citano Prévert, bensì un complice in grado di prendersi cura di noi – come chi si scopre improvvisamente troppo vecchio per replicare schemi già visti. Fatti di sesso occasionale per “tirare a fine ego”, del bisogno di un riconoscimento esterno, di chiamare libertà la solitudine errante ed egoista. Dell’incapacità di fermarsi, a guardarsi dentro.

Il silenzio su una panchina al parco, dopo un orgasmo, durante un film, ascoltando una canzone che stringe il cuore, davanti al mare, nell’attimo prima di una risata sincrona. Il silenzio di chi sa che il cuore si ciba – sì – di emozioni passeggere, ma si sazia quando qualcuno sceglie di restare, di trasformare i battiti adolescenziali nell’adulta – consapevole – rassicurazione di stare bene accanto a quella persona. Ché in fondo l’amore è tutto lì, nel meccanismo ben oliato che profuma di casa.

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