Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Tag: donne

Non piangere

Sono passati due anni, più o meno. Ma si sa, i ricordi ridono in faccia al tempo.
Faceva caldo, quasi come oggi, di quel caldo che piangere o sudare è un po’ lo stesso. E io piangevo, eccome se piangevo. E no, non era lo stesso.
Era la disperazione di chi vede sbriciolarsi ogni speranza, di quando senti di aver sbagliato ogni mossa che ti ha condotto a quel giorno, a quel letto, mentre dalla finestra aperta filtra il rumore del traffico rendendo ancora più acuti gli interminabili silenzi tra i vostri sguardi.
Fammi vedere il telefono.
Voglio leggere quei messaggi.
Si vede che non sei onesta.
L’ennesimo sospetto, l’ennesima illazione, l’ennesimo attacco frontale. La gratuità del Male, a bastonarmi l’anima.

Ci sono atteggiamenti che trasformano valori universali come la correttezza in qualcosa di sporco, di sbagliato. Anche se ti comporti bene, anche se sei perdutamente devota, per chi ha paura di amarti non sarà mai abbastanza. Un tribunale continuo, ecco dove ti intrappolano certe relazioni. Fino a quando pensi che allora restare al suo fianco non sia servito a nulla. Fino a quando ti mancano aria, respiro, parole, forza.
E, semplicemente, crolli.

Piangevo come se il mondo stesse per finire, padrona di un corpo che tremori e spasmi allo stomaco rendevano irriconoscibile, dilaniato dal panico che solo le angherie inflitte da chi ami sanno originare. Piangevo come estrema richiesta di aiuto, pur sapendo che – come sempre – sarebbe rimasta inascoltata.

 
È stato lì che è successo.

 

Inaspettatamente, per la prima volta l’aguzzino ha scelto di fermarsi, anziché abbandonarmi tra i cocci dei suoi bombardamenti. Mi ha guardata come fossi – e lo ero – la cosa più fragile del mondo, e con il gesto più umano che avessi mai visto ha portato la mia testa tra le sue braccia, facendo del suo petto il nostro terreno di pace.
Non piangere, sussurrava.
L’ha ripetuto più volte, lentamente, quasi a carezzare le mie lacrime col tono soffuso di quelle parole. L’ha detto fino a quando ho smesso, fino al sopraggiungere della calma irreale di chi sopravvive a un disastro.
Lo fotografiamo tutti, l’arcobaleno che si staglia sul più nero dei cieli.

Non so, né saprò mai, se quelle parole fossero sincere o opportuniste. Quel che so è che erano le sole giuste da dire. E più ci penso, più capisco una cosa.
Forse quelle come me – imperfette, instabili, dall’anima tanto livida quanto colma di amore – non cercano dichiarazioni da romanzo rosa, promesse pirotecniche, il miraggio di un domani in cui – se tutto va bene – essere felici. Ciò che vogliamo è semplicemente qualcuno che riconosca il nostro dolore, oggi. Che non lo tema, né abbia paura di prendere tra le braccia tutto il nostro carico di insicurezze. Che sia misericordioso, prima ancora di “innamorato”.
E che sussurri al nostro cuore, per tutta la notte, due semplici parole. Facendoci scorgere, senza bisogno d’altro, un domani migliore.
Non piangere.

A mia nonna

Le tavole imbandite mi fanno sempre pensare a te, forse perché ricordo gli ultimi Natali a casa nostra, forse perché tu – come mamma – non sei mai stata una tipa da tovaglietta americana, da pasta servita nel piatto piano, da posate per la frutta grandi quanto quelle di primo e secondo. Forse perché, semplicemente, amavi mangiare: l’hai fatto con gioia, fino all’ultimo, e me l’hai pure insegnato, nonostante i miei problemi di salute infantili, l’inappetenza cronica, il sottopeso che mi ha accompagnata fino alle medie. Ricordo le tue mani che giocano con le briciole sulla tovaglia a fine pranzo, abbassando lo sguardo tra un discorso e l’altro: le toccavi con pollice indice e medio, le spostavi col coltello muovendo il braccio fasciato in uno dei tuoi eleganti cardigan colorati. Ricordo le pastiglie da passarti a colazione, pranzo e cena (ogni estate, in montagna, dovevo ripassare la posologia per non confonderle) e il modo in cui, una volta appoggiate sulla tavola, si mimetizzavano col colore del tessuto. Ricordo il momento del caffè, che tuttora non bevo, e la goccia nella zuccheriera che trasformavi in una dolcissima gemma ambrata con cui viziare il mio palato.

Ho sempre saputo che mi saresti mancata, ma non avevo capito che crescendo sarebbe stato peggio. Che avrei guardato con invidia tutti i miei cugini maggiori che ti hanno avuto accanto prima di compiere le scelte più importanti delle loro vite. Che hanno trovato in te quelle risposte che i nostri coetanei non possono darci, e che ascoltiamo meno volentieri quando hanno il suono della voce dei nostri genitori. Mi guardo indietro, di pochi anni, e vedo tanti errori che – chissà – forse con i tuoi consigli avrei evitato. Ti immagino in salotto, seduta sulla tua poltrona dallo schienale alto – la stessa che oggi, rifoderata, accoglie le mie terga nella casa al lago – a spiegarmi in poche, chiare parole che certe persone, specie di sesso maschile, semplicemente non ci arrivano. A fare spallucce, come a dire poverini, ma di che stiamo parlando. Tu che a nonno – che pensava che volessi essere portata presto all’altare – rispondesti “Ma chi te l’ha chiesto?”. Tu che durante la guerra sei sfollata lontana da casa, portando avanti due gravidanze, e mai hai parlato di quel periodo come di una cosa dolorosa di cui lamentarsi. Certo, eri di un’altra generazione. Certo, erano altri tempi. Ma anche nel Nuovo Millennio la tua forza si è dimostrata cosa rara, tanto che quando – occasionalmente – scorgo parte del tuo animo pragmatico e incrollabile in me mi sento miracolata, e penso che allora forse non ho sbagliato tutto nella vita.

Potrei andare avanti all’infinito, e raccontare di come tu amassi i film privi di sesso e volgarità, ma anche le battutacce a doppio senso da osteria. Di come, durante i canti, la tua voce a messa svettasse sopra quella di tutti, anche se io la ricordo con più trasporto mentre intona la melodia di “What’s up?” dei Four Non Blondes. Della tua repulsione per ciò che era integrale, e per lo yogurt che ai tuoi tempi aveva le bestioline vive dentro. Di come non avanzassi mai nulla nel piatto, del profumo delle pietanze che finché hai potuto hai cucinato per chiunque venisse a sedersi alla tua tavola, dove l’acqua era rigorosamente frizzante: cipolle ripiene, pesche al cioccolato e amaretto, arrosto, risotti di ogni sorta. Il Piemonte, tutto in una donna sola.
Di come, infine, mi sia sdraiata accanto a te sul lettone, l’ultima volta che ci siamo viste. Mi hai sorriso e con la voce un po’ da bambina – come capita spesso agli anziani pur quando rimangono lucidi come sei sempre stata tu –  hai esclamato “L’amore mio!”. Su quel cuscino mi addormento ogni sera, sperando che i miei sogni siano sempre anche i tuoi.

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