Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Tag: amicizia

Punti fermi

Sono ancora una bambina quando si tratta di compiere gli anni. Una che si emoziona nel ricevere auguri sinceri e s’imbarazza a scartare un regalo in pubblico, che ama certe attenzioni perché fondamentalmente pensa di non meritarle. A inizio dicembre sento già la magia del Natale, e mi ci aggrappo con unghie e denti pur di non perdere quel pizzico di autenticità che rende possibile emozionarsi nonostante tutto.
Come gli studenti calcolano i cicli di vita a partire da settembre, per me gli anni iniziano a novembre, il giorno del mio compleanno. Quello che si conclude oggi è un capitolo iniziato 365 albe fa in un sabato ricco di sole, sorrisi e lacrime di gioia. Non è stato facile tutti i giorni, anzi. Ma sono successe un po’ di cose e voglio ricordarle.

Ho scelto di porre fine a una storia in cui ho investito negli anni così tante speranze ed energie che mi domando se ne siano rimaste per relazioni future. Una storia che la parte più stupida di me sarebbe pronta a riprendere oggi, pur sapendo che non ha speranza, perché certi sentimenti – come certi dolori – ci restano dentro così a lungo da divenire identitari, da sapere di casa. E allora farsi deludere ancora da una persona che hai amato davvero – e che a modo suo ti ha ricambiato – appare meno spaventoso del tentare qualcosa da zero, facendosi ferire in modi nuovi da occhi nuovi – occhi che nemmeno guarderai con la stessa arrendevolezza e cuore gonfio che hai rivolto ai precedenti.

Ho imparato che la realtà che circonda la mia generazione, priva di certezze e stabilità, di lavoro fisso, di garantita progettualità, va amata per ciò che è. Come i genitori a cui invecchiando trovi sempre più difetti, ma che non lasceresti mai soli. Come gli amici che ti fanno innervosire per i motivi più disparati, eppure senza di loro ti sentiresti vivo a metà. Come quando ripensi a chi non c’è più, e che magari hai amato alla follia, e ti rendi conto che il tuo dovere è vivere anche per loro. Ho capito che è giunta l’ora di accettare l’esistenza così com’è, lasciando l’affanno stemperarsi in gratitudine, e un coraggio consapevole scalzare la paura.

Ho scoperto che ci sono persone che ti sanno stupire nonostante la tua diffidenza: a vincere sulla mia è stata una donna riservata, affettuosa ma mai invadente, una che pesa le parole e sembra sempre lontana di un passo. In un momento in cui qualsiasi altra avrebbe sfoderato orgoglio e competizione, lei mi ha dato prova che non c’è nulla che l’onestà e la chiarezza non possano aggiustare. Che esiste chi davvero intende ciò che dice e davvero se promette mantiene; a cui davvero puoi chiedere qualsiasi cosa, nella meravigliosa certezza di un aiuto. Me lo ha mostrato con un sorriso a una cena di metà settembre, dopo un gelato sui navigli in cui avremmo potuto discutere e imbarazzarci e ibernare il nostro rapporto in divenire… E dove invece lei mi ha ascoltata, capita, rassicurata, consigliata — il suo sguardo intenso e materno a carezzare le mie fragilità, insegnandomi la parola amicizia.

Ho incontrato la gente più diversa possibile, fatto sesso con uomini bramati per anni, goduto in maniere mai conosciute prima, combattuto per gli ideali in cui credo, difeso chi non era in grado di alzare la voce, desiderato andarmene e non tornare più. Ho pianto a dirotto per le cose più stupide, singhiozzato notti intere senza prendere sonno, odiato la durezza dei miei limiti, detestato l’incapacità di risparmiarmi gli stessi errori. Mi sono sentita debole, imperfetta, indefinita. Irrecuperabile, nevrotica, a tratti disillusa.

…But most of all…

Ho trovato porte sempre aperte dietro a cui rifugiarmi nei momenti di amarezza, pranzi domenicali lunghi un giorno intero in cui sorridere e scaldarsi il cuore senza pensare, cene preparate all’ultimo secondo per la gioia di stare insieme nell’attesa del domani, imperdibili giovedì sera a base di Masterchef e X-Factor, stesso posto stessa ora stessa combriccola che ormai per me è una famiglia e non gliel’ho mai detto.
Ho sorseggiato thè alle giuggiole in una notte coreana a Seoul, da una tazza calda che una sconosciuta mi ha offerto con disarmante dolcezza per curare la mia febbre a 40.
Ho visto il volto di mia madre liberarsi di ogni preoccupazione davanti al panorama della città che aveva sempre sognato, New York. Ce l’ho portata io, come regalo, e ho pianto di gioia nel comprendere quanto sia meraviglioso restituire l’amore che qualcuno ti ha donato.
Sono volata in Cina sola e libera: assaggiato cibi inaspettati e per questo deliziosi, sciolto le briglie della mia mente, percepito la vita con occhi diversi, sorriso fino alle lacrime davanti al palazzo di Pechino che più desideravo visitare, realizzato un sogno nel cassetto – camminare lungo la Muraglia -, compreso ancor di più che un linguaggio universale esiste eccome ed è il sorriso.
Ho visto mio padre imparare a prendersi cura di me attraverso piccole attenzioni, una commissione, una telefonata internazionale durante il Cammino di Santiago, un’occhiata colma di fierezza e priva – finalmente – di distacco ed egoismo. Ho capito che il tempo va usato per perdonare, e tentare di fare meglio, e trovare il modo di volersi bene al di là delle differenze e dei rancori. Che solo la tua famiglia sa da dove vieni, e non te lo devi mai scordare da dove vieni.
Ho letto libri e articoli e opinioni e messaggi illuminanti che mi hanno emozionata, spronandomi a essere una donna e figlia e amica migliore, ché farsi toccare il cuore è il senso di tutto.
Ho assaporato il silenzio meraviglioso della solitudine, quando il tempo scorre alla tua velocità e il letto senza nessuno accanto non sembra vuoto ma solo comodo, e cucini e mangi e balli in pigiama e ti addormenti e ti svegli e pianifichi e spendi e scegli ed esci e torni e viaggi quando ne hai voglia, in una coccola continua chiamata prendersi cura di sé.
Ho scoperto che so amarmi, e che sono amata, e che quando hai dei punti fermi come quelli che mi hanno sorretta nell’ultimo anno il resto sono solo graffi.

Symbolum

Io non lo sapevo che Pietro stesse in Liguria. In un posto quasi di fronte al mare, accanto al belvedere dove tutti si fermano ad ammirare il paesaggio. Ho scoperto che la sua famiglia ha casa lì da tanto tempo, inizio ‘900 credo. Siamo stati a portata di pochi chilometri per molte estati senza ch’io lo sapessi, senza mai passare a dedicargli un minuto del mio tempo. Ancora me la ricordo, l’ultima volta che l’ho visto. La stanza col letto singolo, il silenzio surreale tra una frase sussurrata e l’altra, il golf scuro – forse blu – immacolato e le mani appoggiate tra petto e ventre. Era inverno, era tempo di cappotto – che forse, una volta entrata in casa, non avevo nemmeno tolto dalla fretta di salutarlo. Di vedere la sua espressione serena e riposata, senza grinze come solo la pelle dei bambini sa essere. Sembrava dormisse, Pietro, e col suo viso perfetto rendeva la morte meno spaventosa. Persino la sua.

Aveva undici anni, due più di me. Gli faceva male la testa, tanto, al punto che i suoi genitori decisero di portarlo in ospedale. Chissà se oggi sarebbe diverso, chissà se tenterebbero qualche cura anziché mandarlo a casa a finire il suo tempo, seppur con la più alta dignità possibile. Nel suo lettino, insieme a mamma e papà, e alla sorella: la rivedo seduta sul divano del salotto con quell’aria quasi strafottente e inopportuna, ché il dolore ti fa reagire in modi inaspettati che non vanno mai – mai – giudicati.

Pietro è morto sognando di guarire, attaccato alla sua quotidianità di bambino, con un compagno di classe che dopo scuola andava a fargli visita per raccontargli cosa avesse spiegato la maestra. È morto dicendo alla mamma che d’estate, quando sarebbe stato meglio, sarebbe andato in campeggio coi suoi amici: lo diceva sorridendo, convinto, in trepida attesa. Anche quando non è stato più in grado di parlare, anche quando ha perso la vista, non ha smesso di crederci e fantasticare: di stare meglio, di uscire da quel lettino, di prati verdi e aria pulita, di giochi e piccole avventure. Fino alla fine.

C’era tutta la sua scuola in chiesa, tanti soldatini composti e affranti. Erano gli anni in cui i bambini venivano iscritti a catechismo “d’ufficio”, in cui l’iter battesimo-comunione-cresima era un percorso standard per chiunque, inclusa me ovviamente. Delle inutili parole dell’omelia, degli inutili passaggi del Vangelo ignorati dalle orecchie assordate dalla parola “ingiustizia”, ricordo solo il canto che tutti ci sforzammo d’intonare quando il parroco disse che era il preferito di Pietro. Un canto che io non conoscevo, ma di cui ancora oggi ricordo ogni parola, poiché la sola cosa che mi confortò quel giorno fu conoscere per l’ultima volta qualcosa di suo.
Tu sei la mia pace, la mia libertà.

È in Liguria, Pietro, insieme ai suoi bisnonni nati nella seconda metà dell’Ottocento: è il bambino del cimitero, dicono. Mentre fissavo il nome inciso nel marmo, pensavo che oggi sarebbe un uomo, un papà. E porterebbe i suoi bambini in campeggio. E chiederebbe loro cosa hanno imparato di nuovo a scuola. E la sera, prima di coricarsi, li guarderebbe dormire beati nelle loro camerette, in un letto a una piazza come quello in cui ha sognato di vivere.
Finché avrò respiro, fino a quando tu vorrai.

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