Alice Ayres

You can't rely on other people to make you happy

Categoria: Alice

Ali piumate

È sempre così. I treni partono dalla stazione fianco a fianco, coesi, pronti a darsi manforte verso la stessa meta. Poi i binari si fanno obliqui, e ancora curvi, e quello che sembrava l’oplita pronto a coprirti le spalle si allontana per sempre, in un diverso destino di linee metalliche. Del tempo trascorso a muoversi parallelamente resta solo il luccichio del sole battente sui binari, che colpisce gli occhi e vi imprime ricordi.

L’ultimo scintillio prima della fine – lo squarcio tra la vita di oggi e quella degli anni precedenti – nel mio caso ha in primis le ali. Dei piccioni che si rinfrescano alle fontanelle urbane, dei rapaci che solcano potenti il cielo (è un gheppio o una poiana?), degli Inseparabili che non possono vivere l’uno senza l’altra. Al parco, per strada, in auto, affacciata alla finestra, mi scopro sempre a seguirli con lo sguardo.

Si annida nei sapori forti, decisi, quelli che dopo anni dirai ancora “Ti ricordi che buono che era?”: il coriandolo, il lemongrass, i chiodi di garofano, le spezie del viaggio in India, i suoi samosa gustati caldi per strada.

Brilla nell’ombra salvifica dei boschi d’estate, nella terra polverosa che si fa nuvola a ogni passo, nel profumo umido dopo una notte di pioggia, quando i funghi prendono vita.

Luccica, prima di spegnersi senza appello, in tutte le piccole, trascurabili cose che non conoscevo e che ho imparato – anche quando sembrava che non ascoltassi, ché io ascolto sempre. Aggiunte permanenti al mio modo di guardare il mondo, ricchezza al caro prezzo della malinconia.

Soprattutto, splende accecante nell’amara lezione infertami dagli ultimi due anni: che c’è un tempo per tentare e uno per mollare la presa, e la felicità non può appartenere al primo.

My funny Clementine

In Fondazione Prada c’è questo lettino per bambini con dentro delle mele che mi hanno ricordato Pieces of a woman, il film dove Vanessa Kirby vede morire la figlia appena partorita, riuscendola a stringere a sé solo pochi istanti prima della fine. “Profumava di mela”, dirà con lancinante tenerezza quando troverà la forza di parlare di lei.

Vista la brevità della mia unica gravidanza non potrò mai conoscere, nemmeno immaginare, che profumo avrebbe avuto la creatura che provò ad abitarmi. Ma se chiudo gli occhi e ripenso a quei mesi d’autunno ricordo l’odore dolce ma pungente, e il colore brillante, delle clementine. Clementine in frigo, clementine in borsa che “ricordati di mangiare”, clementine offertemi in banca dalla consulente premurosa. Clementine davanti alla tv, a letto, per strada, sciocchi antidoti arancioni contro un epilogo già scritto.

Abbiamo sempre immaginato che sarebbe stato un maschio, non so perché. Ma ieri davanti a quel lettino, lambito dalla luce nello stesso modo in cui il sole avrebbe illuminato una culla dentro casa mia, ho pensato che forse si trattasse di una femmina. Un’amica, più che figlia, una sorella che mi ha fatto il dono più prezioso: poter tornare a vivere libera. Che con la sua repentina dipartita mi ha salvato da uno strazio imperituro, da un destino di costante abnegazione nel tentativo di proteggerla, dal sacrificio di ogni cellula del mio corpo – e ogni istante del mio tempo – fino a scomparire. Cosa resta di noi se non possiamo più essere? Se diventiamo solo madri, poi madri maltrattate, poi madri single, vedendo ogni porta chiudersi contro i palmi delle mani?

“Signora, so che è indelicato da dire, ma perdere quella gravidanza è stata una benedizione”. Lo so, dottoressa. La verità è che l’ho sempre saputo. E ora, in questo spazio di vita in cui non conosco più l’angosciante dolore del bilico, so che quel sole in casa serve a illuminare me.

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