Animali sociali

di Alice Ayres

La cosa che più mi ricordo della mia prozia paterna è quando mi disse che vivere perpetuamente soli era una condanna all’infelicità. Rimasta vedova e senza figli non troppi anni dopo il matrimonio, non si risposò mai e sopravvisse non solo a sorelle e fratelli, amiche e colleghe, ma anche ai nipoti di prima (in taluni casi persino seconda) generazione, fino a vedere occupato il posto per la propria bara nella tomba di famiglia, ché troppi se ne erano andati prima di lei e non si sapeva dove metterli. Stamattina, superati i 103 anni e 7 mesi d’età, è morta di vecchiaia ben più tardi di quanto volesse.

È dalla scomparsa di M. che reagisco sempre nello stesso modo ai lutti, con dolore (per chi resta, soprattutto) e urgenza. Urgenza di vivere di più, di vivere anche per quella persona, di sovvertire le sue paure scrivendo nella mia storia qualche pagina che avrebbe voluto fare sua.

Così, mentre ripenso a quella donna esile – che finché ha potuto si è truccata e ingioiellata per uscire, accompagnando i tacchi al bastone – che sul pianerottolo di casa mi dice che la solitudine l’ha consumata, avverto l’urgenza di amare e venir ricambiata. Di sorridere, vedere il lato positivo delle cose, finanche perdonare. O, più semplicemente, sentirmi grata. Per quello che mi circonda – coloro che chiamo famiglia e di cui voglio prendermi cura anche quando non ho energie – e per ciò che sto imparando: in primis, cosa significhi essere amata completamente da un uomo. Che quella cosa lì esiste, ed è così assoluta da rendere ininfluente che tutto, a cominciare dalla vita, poi finisce. Non la pensavo possibile, tantomeno per me, ma ora che il destino mi ha smentita penso solo che avrei desiderato lo stesso per lei: un’unione silenziosa che va oltre il tempo e lo spazio. Come i miei nonni materni, come i veri romanzi, come tutto quello che spaventa la morte.