Ali piumate

di Alice Ayres

È sempre così. I treni partono dalla stazione fianco a fianco, coesi, pronti a darsi manforte verso la stessa meta. Poi i binari si fanno obliqui, e ancora curvi, e quello che sembrava l’oplita pronto a coprirti le spalle si allontana per sempre, in un diverso destino di linee metalliche. Del tempo trascorso a muoversi parallelamente resta solo il luccichio del sole battente sui binari, che colpisce gli occhi e vi imprime ricordi.

L’ultimo scintillio prima della fine – lo squarcio tra la vita di oggi e quella degli anni precedenti – nel mio caso ha in primis le ali. Dei piccioni che si rinfrescano alle fontanelle urbane, dei rapaci che solcano potenti il cielo (è un gheppio o una poiana?), degli Inseparabili che non possono vivere l’uno senza l’altra. Al parco, per strada, in auto, affacciata alla finestra, mi scopro sempre a seguirli con lo sguardo.

Si annida nei sapori forti, decisi, quelli che dopo anni dirai ancora “Ti ricordi che buono che era?”: il coriandolo, il lemongrass, i chiodi di garofano, le spezie del viaggio in India, i suoi samosa gustati caldi per strada.

Brilla nell’ombra salvifica dei boschi d’estate, nella terra polverosa che si fa nuvola a ogni passo, nel profumo umido dopo una notte di pioggia, quando i funghi prendono vita.

Luccica, prima di spegnersi senza appello, in tutte le piccole, trascurabili cose che non conoscevo e che ho imparato – anche quando sembrava che non ascoltassi, ché io ascolto sempre. Aggiunte permanenti al mio modo di guardare il mondo, ricchezza al caro prezzo della malinconia.

Soprattutto, splende accecante nell’amara lezione infertami dagli ultimi due anni: che c’è un tempo per tentare e uno per mollare la presa, e la felicità non può appartenere al primo.